Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  aprile 09 Sabato calendario

Ritratto di Lucia Joyce


Alma Mahler, Elisabeth Nietzsche, Theo van Gogh, Hermann Kafka: ci sono famigliari che è difficile considerare semplici parenti di artisti, perché la loro presenza è stata determinante nella crescita del genio di casa, talvolta ne ha influenzato l’opera, più spesso ne ha segnato la vita. Così è successo a James Joyce con la figlia Lucia, di cui si occupa Luigi Guarnieri nel suo nuovo libro Il segreto di Lucia Joyce (La nave di Teseo).

Lucia nasce nel 1907, pressoché all’inizio del lungo soggiorno triestino del padre, che di punto in bianco propone a Nora, appena conosciuta a Dublino, di partire in cerca di fortuna, o più semplicemente di seguirlo lontano dal posto dove sono cresciuti. Si fermano prima a Zurigo, confidando in una dritta a proposito di un posto di insegnante alla Berlitz School, da lì vengono indirizzati alla sede di Trieste, che li spedirà a Pola, per poi riaccoglierli finalmente nella città giuliana con un misero contratto settimanale, dopo cinque mesi di peregrinazioni e noiose lezioni impartite agli ufficiali della marina austriaca di stanza in Istria. È dunque in un contesto di precarietà – economica, psicologica ed esistenziale – che nascono i due bambini, prima Giorgio e poi Lucia. Questo va detto non per giustificare le inadempienze di Joyce – si sa che James non era uno stinco di santo – ma per capire le condizioni in cui si è formata la famiglia. Tanto per cominciare, sono sempre in bolletta. Nora è preda di continue crisi depressive, non parla l’italiano, né intende impararlo, figurarsi il triestino, che è la lingua corrente del posto. Soffre la lontananza da Dublino e più ancora dalla sua Galway. Si rifiuta di cucinare, spendendo in trattoria il poco che riesce a sottrarre dalle tasche di James prima che lui lo sperperi nella vita notturna di Cavana, il quartiere tutto bordelli e osterie dove quel giovane spilungone irlandese che si esibisce intonatissimo nelle canzoni triestine è già diventato un personaggio (facilmente riconoscibile nel suo alter-ego Stephen Dedalus).
Mentre il primogenito Giorgio sarà il prediletto della madre e avrà del padre quasi solo la splendida voce tenorile, il legame tra James e la piccola Lucia è fatto di un’affinità di carattere e di inclinazione all’arte che li terrà inestricabilmente avvinti per tutta la vita e che tormenterà entrambi, forse più il padre che la figlia, quando Lucia sarà ingoiata dal gorgo della malattia mentale, con l’inevitabile odissea delle diagnosi sbagliate e dei lugubri internamenti nelle cliniche psichiatriche del primo Novecento.

Guarnieri ha il merito di raccontare le vicissitudini dell’esistenza di Lucia senza addentrarsi nello psicologismo che spesso caratterizza questo genere letterario. Di solito provo un certo disagio verso il romanzo biografico, anche nei suoi risultati migliori. Capisco il suo potere attrattivo, ma c’è qualcosa in me che oppone resistenza all’idea di inventare i pezzi mancanti della vita di persone realmente esistite, magari immaginando dialoghi, sensazioni, pensieri, con l’idea di colmare gli spazi deteriorati di un affresco lacunoso. Di solito preferisco la strada scelta da Elias Canetti nei tre volumi della sua autobiografia, dove compaiono ritratti eloquenti di giganti come Robert Musil o Hermann Broch, ma come istantanee di un momento condiviso, senza alcuna volontà ricostruttiva, o peggio, esaustiva.
Ebbene, Guarnieri, che per ragioni anagrafiche non poteva certo contare su un ruolo di testimone – Lucia muore nel 1982 – riesce comunque a evitare la finzione romanzesca, affidandosi a una documentatissima ricostruzione dei fatti, priva di orpelli eppure piena di dettagli preziosi, una specie di lunga annotazione che non indulge al voyerismo scegliendo piuttosto la strada della cosiddetta fredda cronaca, un lavoro meticoloso il cui scopo sembra essere l’istruttoria di un processo ai danni di James Joyce. «La povera Lucia è stata crudelmente sacrificata a un illeggibile romanzo di suo padre, del quale per anni ha ricopiato pagine imbrattate da una lingua che le sembrava ancor meno decifrabile del cinese», sostiene Guarnieri.
Di fatto tutto il racconto è percorso da questo doppio capo di imputazione: un padre spietato e uno scrittore votato all’incomprensibilità.
È una posizione legittima, ovviamente, ma tradisce un approccio a freddo, appunto, attraverso uno studio anche molto accurato, che nasce tuttavia da una palese ostilità nei confronti dell’autore di Ulisse e di Finnegans Wake.
Suppongo che, se a Guarnieri fosse capitato di appassionarsi a quella che lui chiama l’illeggibilità del Wake, com’è successo a tanti, me compreso, probabilmente sarebbe stato meno severo. Avrebbe considerato, ad esempio, anche le non poche lettere che attestano quanto Joyce si adoperasse per la fortuna artistica di Lucia, prima nella danza e poi nel disegno, quanto avesse combattuto negli anni difficili della fine, tra Parigi e Zurigo, con le bizze di una psichiatria dove spesso la diagnosi veniva decisa dalla simpatia o dall’antipatia tra medico e paziente, così come la terapia poteva confinare con il castigo. Ma soprattutto manca nella ricostruzione di Guarnieri, l’inesauribile tenerezza del padre verso una figlia sempre più malata e fuori controllo, la complicità che anche nei momenti peggiori non verrà mai meno tra i due, mancano le risate di quando cantavano al pianoforte in quel brutto appartamento di via Bramante, o di quando giocavano con le parole del triestino, l’idioletto che affolla anche le loro lettere più tarde — ciacolar, zittolo zottolo... — a conferma di un rapporto esclusivo ancora intatto.

Guarnieri preferisce inchiodare Joyce alla sua stravaganza, alla sua inettitudine, raccoglie con perizia le poche notizie disponibili sul calvario medico vissuto da Lucia come prove a carico di un unico imputato. È una scelta che troverà senz’altro un suo seguito. A me resta il piacere di aver apprezzato un libro con cui sono in disaccordo.