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 2022  aprile 09 Sabato calendario

Parla la curatriice del padiglione ucraino alla Biennale



Mezza giornata per organizzarsi. E partire. Subito. Da Kiev. La sera del 24 febbraio, a guerra appena cominciata. Prendere la macchina e mettere in salvo 78 imbuti di bronzo che compongono l’installazione, sistemarli in tre scatole di cartone. Poi oltre duemila chilometri (di cui 500 con il finestrino anteriore distrutto), quattro confini da oltrepassare (con la Romania, l’Ungheria, l’Austria, l’Italia), svariati checkpoint – dieci giorni solo per entrare nell’Unione Europea. «Era mia responsabilità portare l’opera al sicuro, alla Biennale», dice collegata via Zoom Maria Lanko. Seduto di fianco a lei c’è l’artista Pavlo Makov. Anche lui è riuscito a lasciare Kharkiv, la sua città in macerie, con la moglie e la madre di 92 anni, che ora è in Austria, poco lontano da Vienna. «Ed eccoci a Venezia, che è splendida come sempre, anche se ora...».
La curatrice (con Lizaveta German e Borys Filonenko, attesi in Laguna) e il protagonista del padiglione ucraino alla Biennale Arte hanno volti tirati e occhi fieri. Sono determinati a partecipare all’esposizione, «siamo professionisti, vogliamo dimostrare che ancora esistiamo, oltre il conflitto, farci conoscere per la nostra creatività». Dopo Venezia, intendono tornare nel loro Paese: «Emigrare è una lenta morte». Anche se «dopo il 23 aprile, giorno dell’apertura, chissà cosa sarà di noi». In queste ore stanno rimettendo insieme Fountain of Exhaustion - Fontana dell’Esaurimento: così si chiama l’opera salvata dalle bombe che continua a cambiare significato, da quando nel 1994 Makov l’ha creata. «Anche se al centro resta un concetto, l’esaurimento dell’umanità».
Infrastrutture fatiscenti, città post-sovietiche condannate al degrado. Nessuna delle fontane pubbliche di Kharkiv funzionava negli anni Novanta. Ispirato anche dalla confluenza (arida) dei fiumi locali Lopan’ e Kharkiv, Makov immaginò allora un imbuto con due «uscite». E una fontana composta da una piramide di imbuti (montati lungo dodici file su una piattaforma di 3,5 metri quadrati) dove l’acqua, colando da quello più in alto a quelli in basso, invece di acquisire potenza la perde, dividendosi – esaurendosi – fino a che solo poche gocce raggiungono la base. Proprio come due fiumi che, pur confluendo, finiscono per prosciugarsi.
Metafore. Di come si viveva nell’ex Unione Sovietica trent’anni fa – «vedevo una tale mancanza di vitalità e di energia» – e poi, con il passare dei decenni, dell’esaurimento delle risorse terrestri, fino ad arrivare al burnout post-pandemico, alla spossatezza causata dai social media. Nonostante i tentativi dell’artista, la Fontana dell’Esaurimento non è mai stata realizzata a Kharkiv. Così, per la prima volta, l’opera sarà presentata nella città «invasa dall’acqua e prosciugata dall’occupazione umana: Venezia», con un nuovo nome F ontana dell’Esaurimento – Acqua alta (all’Arsenale). «V olevamo offrire al pubblico un momento di pausa per guardarsi dentro, riservare ai visitatori un luogo di contemplazione e consolazione, ma ora il contesto è cambiato».

Esauriti ed esausti. «Certo che lo siamo. Tutti. Il mio progetto – continua Makov – parla di questo. Di energie che mancano, dei valori e delle idee che l’Occidente non è in grado di difendere. La Fontana — che è in vendita e parte del ricavato sarà devoluto alla popolazione ucraina – ha a che fare con le relazioni tra esseri umani, tra Paesi, tra civiltà, tra umanità e natura. Ma se prima la mia era una riflessione su cosa sarebbe potuto succedere, adesso è una dichiarazione: ecco cosa abbiamo, ecco come stanno le cose. Non c’è più metafora, ma una drammatica inconfutabile realtà. In questo senso il significato dell’opera cambia».
Simboli in evoluzione. Anche se Maria Lanko non si fa troppe illusioni: «C’è molta attenzione nei nostri confronti – dice glaciale – ma non è questa la fama che volevamo. Noi crediamo che quello di Pavlo sia un grande lavoro e che possa avere una certa risonanza, ma possiamo fidarci adesso di un successo determinato dal conflitto in corso?». Dubbio legittimo. Makov aggiunge: «Mi sento un po’ in colpa per tutta questa attenzione, anche se so benissimo che quello che sta succedendo non dipende da me. Ma sono convinto che sia nostro dovere essere qui e spiegare cosa sta succedendo nel nostro Paese». Segue un elenco di errori che secondo l’artista sono tipici di noi europei. «Primo: la guerra dura da otto anni, non dal 24 febbraio». Anche per questo il team del padiglione ucraino ha immediatamente (il 25 febbraio) diffuso una dichiarazione ufficiale contro la presenza della Russia alla Biennale di Venezia (e il 28 la Federazione Russa ha rinunciato a partecipare). Makov continua: «Fisicamente è una guerra contro l’Ucraina, ma in realtà è un attacco alla mentalità occidentale, all’Europa e ai suoi principi, hanno cominciato con noi per spaventarvi. Perché se hai paura sei debole».
Nelle parole dell’artista che è nato a San Pietroburgo nel 1958 (allora Leningrado), ma è cittadino ucraino (più volte ha ribadito che «la cittadinanza vale molto più dell’etnia»), c’è il dolore per «anni di soprusi, di negazioni». Fa notare che mentre l’istituzione Biennale e la comunità internazionale hanno dimostrato solidarietà nei loro confronti («anzi, ci sarà uno spazio temporaneo, una specie di Emergency Pavilion, dedicato alle voci dell’Ucraina e ci saremo anche noi insieme agli artisti nostri connazionali, ai Giardini»), nessun intellettuale russo «si è fatto vivo con noi, del resto stanno tutti con Putin. E anche in questo sbagliate: quella in corso non è la guerra di una persona, ma di un’intera nazione». Terzo errore: «Ucraini e russi non sono connessi, non sono vicini, non sono neanche lontanamente assimilabili: noi abbiamo tagliato tutti i ponti con la Russia nel 2014».

L’ultima volta che Makov ha esibito i suoi lavori al Museo Puškin di Mosca era il 2004: «Nella targa c’era scritto “scuola della Russia del Sud”, giusto per farvi capire come ci hanno sempre trattato». Aggiunge: «Sì, parliamo lingue simili, ma quello in corso è uno scontro tra civiltà: da una parte quella totalitaria russa, fondata sulla forza e sull’appropriazione; dall’altra quella ucraina che è orientata alla libertà e alla dignità. Siamo due nazioni diverse, con identità opposte. E non da adesso, è così da sempre».
Tornare in Ucraina, appena possibile. Tornare a casa. «Non c’è altra scelta». Nonostante le case distrutte, l’incertezza. Maria Lanko dice sicura: «Non possono prendere Kiev a meno che non siamo tutti morti. Come stiamo? Siamo preoccupati per i nostri cari che sono rimasti, devastati dalle immagini che ci arrivano ogni giorno, non sappiamo cosa succederà, ma dobbiamo essere ottimisti perché altrimenti è la fine. Emigrare non è un’opzione, anche se in molti ci stanno offrendo nuove patrie». Il coraggio non manca agli ucraini: «In trent’anni di indipendenza – continua la curatrice – non abbiamo avuto nessuna garanzia, niente ci è stato regalato, ci siamo dovuti organizzare, siamo self made, ognuno di noi ha dovuto e deve contare sulle proprie forze, e per questo non ci sono barriere con il nostro presidente Zelensky, che sento vicino come Pavlo in questo momento» (gli tocca un gomito). Aggiunge lui: «L’indipendenza non dà garanzie, ma porta con sé la libertà. E la libertà richiede responsabilità: è questa la mentalità che prevale a Kiev».
Artisti in guerra. «Ma la nostra arma, la cultura, è lenta. Non è quella giusta ora». «È solo una parte della battaglia». E da Venezia si può comunque combattere: «Anche se è una piccola parte nella lotta, siamo qui a rivendicare la nostra presenza in una manifestazione internazionale. Ci siamo, rappresentiamo una nazione intera, vogliamo farci conoscere. Questo possiamo fare in un momento in cui, parlo per me, creatività e ispirazione sono al grado zero», proprio mentre le istantanee della guerra superano di gran lunga qualsiasi scenario ipotizzato. «Guardate le statue di Kiev coperte da sacchi di sabbia: quale installazione può competere con la forza di quella immagine, cento volte più potente delle opere di Christo? La realtà è troppo più efficace».