Corriere della Sera, 9 aprile 2022
Intervista a Filippo Timi
Gaia Piccardi
L’attore: prima di Salvatores e Bellocchio ho fatto la fame
«Sono stato un adolescente introverso. Il ballo era l’attività che mi toglieva, di peso, dalle mie chiusure. Ogni volta che alla televisione compariva un film con Fred Astaire mi illuminavo, e i piedi sotto il tavolo cominciavano da soli a ballettare. A 6 anni dico a mia mamma Luciana che voglio fare danza. Mi accontenta. Il primo giorno di corso mi mettono a fare il gattino per due ore. Il gattino...? Nei miei desideri avrei voluto che la maestra, dopo avermi fatto esibire per dimostrare tutto il mio talento, mi dicesse: altro che Fred Astaire, Filo, tu sei pronto per Broadway! Me ne sono andato sbattendo la porta».
Se non si fosse pensato in grande sin da piccolo, Filippo Timi non sarebbe mai partito da Ponte San Giovanni, in Umbria, per riversare sulle principali forme d’arte – teatro, cinema, scrittura, pittura, musica – e sulle loro derivazioni – regia, televisione, radio – una strabordante esigenza di affabulante comunicazione la cui origine, risalendo la corrente di quel Tevere che come Circe Ulisse avrebbe attirato il viaggiatore della parola a Roma, va cercata ab ovo. Eccola, da qualche parte nel reparto di pediatria dell’ospedale di Perugia: «Nel mio primo ricordo sono appena nato, dentro l’incubatrice. La stanza è scura, c’è una ventola che in sottofondo produce un rassicurante ronzio e una luce azzurrina che traspare in chiaroscuro. O forse ho letto una poesia di Rimbaud e mi sono suggestionato da solo?». Proseguirà così fino alla fine, tra verità e sogno, in presenza di una moltitudine di personaggi incarnati e incarnabili che affollano la stanza di un albergo milanese (sul tavolo il copione del film su Monica Vitti che sta per girare con Alba Rohrwacher e l’inseparabile Coca-cola), tanti che a un certo punto bisogna aprire la finestra per non creare assembramento.
Filippo come è nato?
«Di sette mesi, avevo fretta. Mamma era infermiera. Quando mi ha portato a casa sono rimasto al buio per due mesi».
La prima luce è il teatro?
«Prima ci sono la danza e il pattinaggio a rotelle: ero forte, ho fatto gare, questo spiega le mie cosce importanti. A 15 anni, poiché non giocavo a calcio, mi dicevano frocio. Perché mi mettete un’etichetta, perché lo usate come un insulto, mi chiedevo. Ma soprattutto: perché non ho avuto il coraggio di dire sì?».
Perché.
«Un periodo non facile, anzi: decisamente nero. Mi diplomo con 60/60 all’Istituto d’arte, chiedo ai miei di fare l’Università. E con quali soldi ?, fa mamma, vai a lavorare con tuo papà valà (mio padre Nello faceva tubi di cemento, che non c’è niente di male, sia chiaro). Invece mi iscrivo a Filosofia. Al primo esame, su Lévi-Strauss, prendo 29. Il secondo è su Socrate, che ai simposi si presentava con l’ombretto blu sugli occhi, agghindato in tuniche femminili: un travesta, diciamolo. Mi presento vestito e truccato così. Il professore è il rettore della facoltà: all’inizio fa finta di niente, ma quando a domanda mi ostino a rispondere con domanda (d’altronde è il metodo socratico), mi caccia. La mia Università finisce lì. Il problema è che io non volevo studiare Socrate, volevo incarnarlo».
L’immedesimazione del metodo Stanislavskij.
«Già facevo teatro, mai avrei pensato di poterci vivere. Accompagno un amico al Centro per la sperimentazione e la ricerca teatrale di Pontedera, prendono me. Al provino li sfinisco di trottole e ruote senza mani: devi darti un colpo in avanti con il petto, sono faticosissime ma esaltanti. Vado avanti per ore, con l’allenamento del pattinaggio, e li schianto. Ma la mia vera carriera è partita quando ho cominciato a guadagnare soldi. Cioè con Salvatores e Bellocchio, prima facevo la fame. Fino a 25 anni entravo in scena per non balbettare, per dimostrare agli altri che ero bravo e a me stesso che esistevo. Poi grazie a Cechov ho capito che era più interessante mettermi a disposizione del ruolo e della storia. Da concavo a convesso, insomma. Finché non abbracci il tuo dolore, però, non succede».
E quando ha deciso di abbracciarlo?
«Recentemente ho avuto un down, dispiaceri sentimentali. Una cara amica, Lucia Mascino, mi ha detto: Filo devi abbracciare la tua parte ferita. Se non l’abbracci tu, chiederai a qualcun altro di farlo da fuori, ma ti mancherà sempre un pezzo. Ecco, a me questa cosa ha cambiato totalmente la vita! Come se in cielo all’improvviso fosse apparso il sole: non significa che sono scomparse le nuvole, certe fragilità riaffiorano sempre».
In famiglia, da bambino, era già il centro dell’attenzione?
«Non direi, no. Papà era un uomo buono ma chiusissimo, non spiccicava una parola: stava seduto sul divano, davanti alla tv spenta. Mamma mandava avanti la casa con la grinta di una leonessa. Forse mi sono preso in carico la loro voglia di comunicare...».
Al centro del suo ricco femminario, nel nucleo profondo della Mrs Fairytale di «Favola», c’è sua madre Luciana?
«Sì. Il giorno in cui mi ha mentito (per una cavolata, nemmeno me la ricordo) è stata la fine di tutte le illusioni: la mia cacciata dall’Eden».
Chi sono gli artisti che compongono il suo pantheon, Timi?
«Il primo che mi ha davvero affascinato è stato Jean Cocteau: i film, i romanzi, le poesie. Un genio. Un creativo. Un Leonardo da Vinci meno scientifico».
Dopo quasi trent’anni, avendo fatto così tante cose, ha capito qual è il suo talento?
«È l’attività che mi fa sentire più in pace, qualsiasi essa sia. Succede quando, nel momento, ho il coraggio di essere aperto. Può accadere scrivendo, recitando, dipingendo... A teatro, però, in particolare, ci sono situazioni in cui ti butti nel vuoto senza rete. Il percorso attoriale è questo: lasciare la comfort zone per rappresentare altro. Fare teatro è un gesto artistico assoluto, un voto (non vuoto) a perdere. È l’unica arte che non lascia traccia di sé se non qui e ora. Tornare a teatro dopo la pandemia è stato come rifare l’amore dopo due anni, ricominciare a sentire il cuore, il fiato, il corpo dell’altro».
Il lavoro di cui va più fiero?
«La mia anima».
È un lavoro?
«No, non lo è».
La sceneggiatura vorrebbe che lei, qui, rispondesse: il lavoro di cui vado più fiero è il prossimo.
«Che è un po’ vero, peraltro. Sogno di incontrare gli impossibili: Christopher Nolan, i fratelli Coen, Martin Scorsese e Brian De Palma. Nanni Moretti è una mia perversione. Garrone, Sorrentino, Saverio Costanzo lo stimo tantissimo, Virzì, con Bellocchio e Salvatores lavorerei di nuovo subito, i fratelli D’Innocenzo e Valeria Bruni Tedeschi, stupenda».
È innamorato?
«No. Anzi, sì».
Sì o no?
«Sono innamorato di me stesso».
Doppio sogno: questa è recitazione o realtà?
«Mi spiego: prima amavo solo il lavoro, ora provo a dare un senso a tutto. Mi sacrificavo: non mangiavo, non dormivo. Sto davvero cercando di volermi un po’ più bene. Affronto il lavoro in maniera meno disperata. È come se avessi finalmente capito che l’inferno esiste; esiste anche il paradiso, però dura un attimo».
Su Netflix è uscito «Il filo invisibile», la storia di due padri disfunzionali in una famiglia arcobaleno. Arrivato a 48 anni, un figlio le manca?
«Sono zio felice: con me i miei nipoti riescono a confessare cose che ai loro genitori non direbbero mai. Parliamo di tutto. A un figlio ci penso: non tutti i giorni, ma ci penso. Senza particolari ansie né aspettative. Sono aperto all’universo».
Se si incontrassero, Mrs Fairytale e Drusilla Foer si piacerebbero?
«Oddio sì! Diventerebbero amiche per la pelle! Drusilla a Sanremo è stata una bellissima presenza, è una donna di grande eleganza. A Firenze è venuta a vedermi a teatro, poi siamo usciti a cena insieme. Una piacevole serata».
Sul palco o sul set sembra impavido. E nella vita reale di cosa si vergogna?
«Non sono così sfacciato come sembro. Sul palco si accende una creatività: il fine ultimo è la bellezza, che può essere grazia assoluta o uno sfregio cosmico. Nella vita di tutti i giorni incappo in tante insicurezze... È brutto dire che mi vergogno ma, sì, mi vergogno di chiedere aiuto, qualsiasi tipo di aiuto, dall’indicazione stradale alla mano che ti tira su dal baratro, e allora mi viene da imprecare».
È questa la vita che sognava da bambino, Filippo?
«È una vita incredibilmente più sfaccettata e ricca! Non avrei mai osato sperare in tanto. Però mi riconosco il merito di non aver mai mollato, nemmeno quando non arrivavo a fine mese e se non c’era un’amica che mi invitava sempre a cena mettevo in conto di saltare il pasto».
Cosa voleva fare, da grande?
«Lo stilista, l’attore o il Papa. Da piccolo ho fatto un sacco il chierichetto e mi piaceva tantissimo. I canti, la chitarra, il rito della Messa: era già teatro».
Nel suo spettacolo di Capodanno c’era un’invettiva contro i senatori del Parlamento italiano che hanno accantonato il Ddl Zan, il disegno di legge contro l’omobitransfobia.
«Non credo nelle religioni che, invece di includere, escludono. Che meraviglia quel parroco di Lonato del Garda che durante l’omelia della domenica ha intonato la canzone di Blanco e Mahmood: qualcuno forse non se n’era accorto, ma la parte divina c’era pure a Sanremo».
Lei è buddista.
«Non ho troppa voglia di parlarne ma le dico questo: un po’ più buddisti, questi cattolici, dovrebbero essere... Basta con il senso di colpa».