Corriere della Sera, 9 aprile 2022
Sergey Matuk, il becchino delle fosse comuni
Bucha (Kiev) Adesso piove su quei fagotti scuri che lui aveva raccolto uno a uno per le strade della sua città, durante le quasi cinque settimane di occupazione russa. E piove anche su di lui, una pioggia fredda che ha già infradiciato il suo pullover e il piumino senza maniche. Ma quest’uomo massiccio sulla quarantina pare non accorgersene, ha lo sguardo serio, le mani serrate: Sergey Matuk ha un rapporto tutto personale con questi poveri cadaveri bagnati e sporchi di sabbia, che a pochi metri da noi vengono adesso tirati fuori dalla fossa comune. «Uno dei primi giorni di marzo gli ufficiali russi sono venuti a dirmi che in quanto responsabile del cimitero comunale avevo il dovere di recuperare i cadaveri per la strada e metterli qui nella fossa comune scavata dai bulldozer nel parco dietro la chiesa di Sant’Andrea», racconta soppesando le parole. Quanti in tutto? «Circa 300, e di questi quasi 240 sono sepolti nella fossa comune per il fatto che attorno si combatteva e non potevamo avere accesso ai cimiteri. La maggioranza erano uomini, uccisi da proiettili sparati dai soldati russi da distanza ravvicinata».Matuk si rende conto che a questo punto ogni dettaglio conta e parla preciso, prendendo tempo se è incerto sulla risposta. Qui, assieme agli addetti delle squadre di soccorso, ci sono anche i commissari dei team incaricati dalla Procura di Kiev di trovare le prove che permettano di accusare la Russia, e magari lo stesso Vladimir Putin, di fronte alla Corte Penale Internazionale dell’Aja per crimini di guerra. «I russi non volevano che la popolazione si occupasse dei morti. Sparavano a chiunque uscisse di casa. Però i corpi andavano raccolti, iniziavano a decomporsi e stavano diventando preda dei cani abbandonati per la strada, cresceva il rischio della diffusione di malattie. Mi hanno detto che dovevo lavorare da solo, ma ho preso due miei aiutanti, ci siamo muniti di guanti di gomma e mascherine e abbiamo iniziato a pattugliare la città. Era deserta, i russi impedivano non solo di uscire, ma anche di aiutare. Non si poteva soccorrere i feriti, vietato recuperare i cadaveri, fare funerali, o anche cercare di salvare la gente da sotto le macerie». Sotto la pioggia insistente vediamo che tirano fuori dalla fossa una donna. «Tra queste prime quaranta salme credo vi siano tre donne. I russi non facevano grandi differenze, chiunque uscisse di casa diventava ai loro occhi un obbiettivo legittimo», aggiunge sottolineando che la grande maggioranza sono stati aggrediti dai russi e solo pochi sono vittime dei bombardamenti durante la battaglia. «Su alcuni c’erano evidenti tracce di maltrattamenti e torture, tanti sono stati colpiti da proiettili alla testa, una ventina ho scoperto che avevano le mani legate dietro la schiena. Voglio essere preciso: soltanto tre su trecento sono soldati ucraini morti combattendo».
Alle sue parole fa eco il parroco della chiesa, il quale enfatizza una vicenda che abbiamo sentito già in altri villaggi della regione: «Abbiamo visto che i soldati russi obbligavano i fermati ai posti di blocco a spogliarsi, se vedevano disegnati sulla loro pelle tatuaggi nazionalisti venivano fucilati sul posto». È ancora il parroco a sottolineare che tra le vittime potrebbero esserci anche donne violentate. «Di molte non sappiamo più nulla da tempo». Matuk annuisce e intanto stringe le mani al fratello affranto di uno dei morti. Si conoscono da anni. Pronunciano nomi di altri scomparsi. Senza dubbio saranno in tanti tra gli abitanti di Bucha che verranno a chiedergli dei loro cari nei prossimi giorni.