Tuttolibri, 9 aprile 2022
Chi è Alessandro Gori, o meglio lo Sgargabonzi
«Del panettone io non capirò mai la vicenda dei canditi. Sugli scaffali vedi sempre più confezioni su cui campeggia la diabolica dicitura “Senza canditi”. Lo trovo, in una parola, pazzesco. Non è che ci trovi scritto “Purtroppo senza canditi”, “Ci dispiace ma questo c’è venuto senza canditi, prendi quello accanto”, “La persona che ha fatto questo panettone è stata licenziata perché non c’ha messo i canditi e s’è sparata”, “Stanno creando un clima infame”. Macché! La scanditatura è notificata da richiami sgargianti, multicolori e di foggia giovanilistica quasi a vantarsene, anzi proprio a vantarsene. Capirei se su quelle confezioni ci fosse scritto “Senza feci” o “Senza neonati tritati”, ma cosa ti hanno fatto i canditi?».
Comincia così «La situazione panettoni», uno dei brevi capitoli che formano Confessioni di una coppia scambista al figlio morente di Alessandro Gori (ma la coppia scambista fa una brevissima apparizione, priva di figlio morente: il titolo è solo fantasia, provocazione e musica, come tante altre cose nel libro). Oggetto letterario inclassificabile, come i precedenti dello stesso autore, pubblicati col nome d’arte di Sgargabonzi. Non è certo un romanzo, né sono propriamente racconti, perché a Gori le storie interessano poco, molto le voci, i personaggi, le nevrosi. Le scansioni sono quelle brevi e fulminanti a cui ci ha abituato la scrittura in rete – e spesso è in rete che nascono le minute dei «pezzi» di Gori – ma lo stile è curato e preciso, l’uso del linguaggio più raffinato e consapevole di quella di un buon novanta per cento dei nostri scrittori «seri», e per così dire ufficiali. Abbondano solecismi e frasi fatte, il percolato del gergo massmediatico e social («la vicenda dei panettoni»), ma per una volta è tutto voluto, sapientemente stravolto e organizzato in forma. Le chiacchiere del mondo sono convocate e frullate per negare il mondo stesso, e inventarsene un altro, dove tutto è possibile; quando Pierino confessa alla madre di essere appena stato abusato (dal «teologo Corazzesi, stamattina, ad Imperia»), lei gli risponde che «questo chiaramente dispiace».Potremmo forse definirli «frammenti di un discorso umoristico», queste tessere narrative così diverse tra loro, se non fosse che il libro non è frammentario del tutto – alcuni situazioni e personaggi ricorrono – e soprattutto che non è solamente umoristico. Critici intelligenti e autorevoli pensano che Gori sia «il migliore scrittore comico italiano»; ma Gori non fa ridere affatto altri tipi di pubblico, irritati da uno sguardo che non si abbassa di fronte a niente – «20 curiosità sui malati terminali» è un capitolo che rende l’idea – e da uno stile fatto di cambi di registro improvvisi e violenti (si veda, nel passo citato all’inizio, la transizione dai panettoni ai suicidi, dai canditi alle feci e poi ai neonati tritati).Gori, dal canto suo, ha sempre detto di non puntare a far ridere (tanto ormai «ogni status su Facebook è una missione simpatia»), e nemmeno a riflettere («della comicità fatta per smuovere le coscienze su problemi quali razzismo, sessismo e i dentisti che non rilasciano la fattura non me ne può fregare di meno»): credo sia sincero, come è sincera la sua disperazione («questo esubero di risate vaporizzate ovunque mi ha reso appetibile la prospettiva contraria: piangere, urlare, implorare l’infermiera, allungare la mano alla ricerca del flacone di Nembutal»). Si vede e si sente che non fa nulla per piacere a tutti; il lettore lo vuole conquistare e sedurre, ma sempre e soltanto a modo suo – con la rabbia, l’imbarazzo, la morbosità, la violenza, ma anche con la malinconia, e non di rado la cupezza. In tutto il libro non c’è un personaggio positivo, ma anche i più orrendi hanno un tratto umanoide; quasi tutti sono sofferenti, insieme carnefici e vittime. Non ci sono valori, ma solo piaceri e dolori; l’amore coincide con la fantasia edipica («bello paciarotto sulla mia sdraio, auricolari ficcati nelle orecchie e Voulez-Vous degli Abba in filodiffusione. Sotto di me, ruggente telo da mare con la figura delle diecimila lire comprato da lei: mia madre»). La felicità si rifugia nei ricordi, le vacanze al mare con i propri genitori ragazzi: «Milano Marittima, estate 1990, le foto dei miei genitori giovani. Eravamo alla rotonda Primo Maggio, tenevamo la pianta del piede alzata per dare l’idea che stavamo passeggiando. Mia mamma, sarta per Mimmina, diceva che faceva fine». Comunque il passato è sempre meglio del presente, e quanto al futuro, beh, non esiste («Erano anni particolari quelli, con Moonlight Shadow in gradevole sottofondo, lontani dalla volgarità di questa benedetta trap e dalla malizia ineducata dei meme dai quali per la prima volta prendo ufficialmente le distanze»). Altro che comicità, il vero tema di Gori è il Tempo che passa. Che è come dire la morte: di un amico, del gatto, di una parte di sé, dei gelati della propria infanzia: «Mentre vivevate, mentre consumavate e buttavate via, depennando nomi in rubrica, comprando cappotti eleganti, elargendo forti strette di mano, fregandovene e guardando sempre dritto, l’Eldorado scompariva».