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 2022  aprile 09 Sabato calendario

Intervista a Maria Dueñas

Per sfuggire all’angustia dei giorni del Covid Maria Dueñas si è messa a scrivere il seguito del suo più grande successo. La professoressa di filologia inglese ha lasciato la cattedra tredici anni fa per scrivere romanzi, «mi è dispiaciuto per gli studenti», dice dalla sua casa di Madrid, ma i risultati dicono che la scelta è stata azzeccata: oltre 10 milioni di copie vendute in Spagna e non solo. Con la pandemia la signora Dueñas, come tutti, ha dovuto cancellare viaggi, presentazioni e cerimonie si è chiusa nella sua casa di Cartagena, con vista sul Mediterraneo e si è astratta da quei giorni angosciosi. Il risultato è stato Il ritorno di Sira, il seguito di La notte ha cambiato rumore, romanzo di successo globale (con serie tv annessa) con al centro la vicenda avventurosa di Sira Quiroga, una sarta di Madrid, che nel dopoguerra diventa una spia che gira il mondo uscito a pezzi dalla Seconda Guerra mondiale. Tra il primo e il secondo volume sono trascorsi dodici anni, ma il pubblico ha risposto anche questa volta: in Spagna siamo già alla quindicesima edizione.
Maria Dueñas, intanto una premessa: si può leggere "Il ritorno di Sira", senza aver letto "La notte ha cambiato rumore"?
«Sì, ho voluto che fosse un romanzo autonomo. Ci sono alcuni personaggi che tornano dal libro precedente, ma la trama è indipendente».
Ci presenti Sira.
«È una giovane sarta che abbiamo conosciuto come una ragazza innocente che abbandona Madrid, per seguire un amore sbagliato. E da lì comincia a crescere come persona e come personaggio letterario. Sira in questo nuovo romanzo è una donna più matura, con una novità: è arrivato un figlio».
Ha una visione del mondo diversa?
«Sì, i drammi che ha dovuto vivere, sia per se stessa, sia per il mondo che la circonda. E ora è una donna molta diversa».
Il fatto di essere madre la cambia?
«Sì, ora ha una responsabilità, non è più lei da sola al mondo. Il suo modo di agire è molto cambiato, deve tenere in considerazione un’altra vita».
È una straniera ovunque vada, persino in Spagna. Perché?
«È un tratto fondamentale, per me era importante che avesse un’identità indefinita, in modo che la rendesse adattabile e più libera, non ha legami con i luoghi. La sua visione del mondo è molto più aperta, tollerante e ambiziosa».
Una visione del mondo molto diversa dalla Spagna di allora.
«Molto diversa. La sua figura non rientra nel modello femminile della Spagna di allora».
L’ideologia dominante del franchismo, il nazionalcattolicesimo, ha avuto come principale nemico la libertà delle donne?
«È così. Il franchismo si basava su una visione rigida del cattolicesimo, usato come arma sociale e politica per rinchiudere le donne in casa. Lo slogan era "la donna è l’angelo del focolare", una tecnica intelligente perché in apparenza vuole esaltare la donna, metterla su un piedistallo come la vergine Maria, ma in fondo la tiene rinchiusa in casa, alla famiglia, alla cucina e al ferro da stiro. Le donne spagnole non potevano avere un conto in banca, senza la firma di un uomo, non avevano la patente, né un passaporto e non potevano viaggiare senza autorizzazione del marito. Quando lavoravano avevano un ruolo secondario. Con questa concezione sono cresciute generazioni di donne che accettarono questa sottomissione. È stato un passo indietro nella storia».
Il franchismo non si limita a bloccare il percorso della parità, ma fa compiere un passo indietro.
«C’è stata un’involuzione enorme rispetto al periodo della repubblica durante il quale le donne avevano un ruolo importante. E questa condizione è durata molto tempo, quasi 40 anni. Fino alla morte di Franco nel 1975, o forse un po’ prima, la maggioranza delle donne sono rimaste sotto il comando degli uomini».
Oggi in Spagna il femminismo ha conquistato spazio nel discorso pubblico, a suo avviso restano però nelle donne le tracce dell’oppressione nazionalcattolica?
«Il peso di quella eredità si nota nella voglia di rompere con quel passato. Quello che noi donne stiamo facendo qui è metterci al passo con le donne del resto del mondo, in fondo abbiamo smesso di essere un’eccezione, perché mentre negli altri Paesi i diritti avanzavano noi restavamo indietro. Siamo diventate donne con i diritti del resto del mondo».
Forse anche di più.
«Sì, la presenza femminile nella politica è un esempio virtuoso della Spagna. Questo si deve allo sforzo fatto per uscire dalla dittatura. Ma mancano ancora molte cose per raggiungere la parità».
Dietro a ogni riga dei suoi romanzi sembra esserci un lavoro enorme, ricostruzioni storiche ricche di dettagli e mai lasciate al caso. È un lavoro complicato?
«Mi porta via molto tempo, ma è un lavoro appassionante. Lo studio è fondamentale, perché mi permette di tenere saldi i pilastri storici, sociali, economici. Mi piace molto viaggiare, parlare con la gente. È fondamentale per i miei romanzi leggere di tutto, come un ventaglio, dalle questioni più accademiche, la storia e la politica, a quelle considerate più frivole, come mangiava la gente, come si arredavano le case, cosa guardavano al cinema».
Ci sono quattro capitoli: Gerusalemme, Londra, Madrid e Tangeri. Ha potuto fare i sopralluoghi prima di scrivere?
«Quando ho scritto la parte su Gerusalemme eravamo in piena pandemia ed è stato impossibile. In ogni caso ci ero stata nel passato. La stessa cosa è successa con Londra, dove poi sono tornata. L’unico posto che ho potuto visitare durante la scrittura del romanzo è stata Tangeri, la settimana prima del confinamento. In questo senso è stato un libro figlio della pandemia».
Ci sono scrittori che hanno approfittato del confinamento per concentrarsi, altri, come Manuel Vilas, dicono che questo grande intervallo ha bloccato la creatività. Lei come lo ha vissuto?
«Da una parte ovviamente c’era la preoccupazione di tutti. Il non sapere cosa stesse succedente. Ma per scrivere è stato un momento prolifico, non ho avuto interruzioni, ho smesso di viaggiare, il cammino della scrittura non è stato alterato. Questa strana condizione è servita per poter vivere un mondo parallelo, quello del romanzo, che è stato un’isola nella quale mi sono potuta nascondere per scappare da questa situazione così drammatica».
Perché ha scelto di ambientar il primo capitolo nella Palestina durante il protettorato inglese?
«È una fase poco raccontata. Lo scontro non è solo tra la popolazione araba e quella ebraica, ma c’è anche quello contro gli inglesi. Marcus le dice: sei doppiamente straniera. Vivi in Palestina, circondata da una comunità di inglesi. Non c’è nessun sollievo, la sua solitudine è immensa. Quando rimane incinta, resta sola in un posto pericoloso, con una responsabilità».
Una Londra molto fuori dagli stereotipi.
«Volevo raccontare l’eroismo con il quale Londra è uscita dalla Seconda guerra mondiale, non è stato facile, sono serviti decenni. E’ servita una coscienza collettiva per rimettere in piedi una nazione distrutta dal conflitto e farla tornare una grande potenza. È un aspetto che ammiro molto».
Sira torna in una Spagna povera, piena di rancori.
«Nel secondo dopo guerra la Spagna non ha più alleati. Franco la chiude al mondo in un modo molto maldestro. Gli alleati abbandonano i repubblicani in esilio. È una Spagna molto sola, con un regime repressivo e autoritaria. Franco ha bisogno di un sostegno e lo trova nell’Argentina, allora un Paese molto ricco».
E qui spunta Eva Perón, che gira le città spagnola come una star. Perché l’ha inserita nel romanzo?
«Non l’ho scelto, mi è venuta incontro. In questa Spagna desolata del dopoguerra non succede nulla, e la cosa più esotica a cui si assiste è l’arrivo di Evita».
Evita girò otto città spagnole. Come gestì la visita il regime di Franco?
«La propaganda franchista utilizzò questa visita con abilità, trasformandola in un grande spettacolo sociale e costringendo i mezzi di comunicazione di allora a coprire l’evento in modo molto enfatico. Una cosa che mi è stata utile, ho trovato molti documenti».
Poi c’è il Marocco, una terra che lei ama moltissimo. Cosa l’affascina?
«Ci vado spessissimo. La mia passione arriva dai fantasmi del passato. Mia madre è nata a Tetuan durante gli anni del protettorato. La memoria sentimentale della mia famiglia è lì, se ne parlava di continuo. Mi piace molto recuperare pezzi del passato che oggi non si notano più».
Sira tornerà?
«Non è previsto, non è nei miei piani. Ma Sira non ha ancora 40 anni e ha ancora molta vita davanti, quindi vedremo…».