La Stampa, 9 aprile 2022
I sepolti di Chernihiv
Tamara Ivanovna aspetta in coda la distribuzione di un pacco di pasta, farina e olio. Sono le dieci di mattina a Chernihiv. Tamara ha settant’anni, si affatica a stare in piedi. Siede su una panchina, chiude gli occhi e sposta il viso in direzione del sole. È la prima bella giornata dopo settimane. Ma lei non può saperlo perché per quarantadue giorni ha vissuto in un rifugio sotterraneo della sua città prima attaccata, poi accerchiata dai russi. Chernihiv dal dieci marzo per settimane prima della liberazione è stata la Mariupol del nord. Duecentocinquantamila abitanti, metà dei quali fuggiti nelle prime ore successive all’invasione, è una delle città più antiche dell’Ucraina a ottanta chilometri dal confine bielorusso.
Chernihiv è stata una delle prime città ad essere raggiunta dall’esercito russo, è sulla rotta che le truppe speravano di usare per raggiungere la capitale Kiev distante 150 chilometri.
Le forze di Kiev hanno respinto l’attacco alla città, e quelle russe l’hanno accerchiata ostacolando sia l’entrata di aiuti e corridoi umanitari sia l’uscita dei civili che hanno vissuto tre settimane di assedio, fino al 31 marzo quando l’esercito ucraino ha riconquistato l’autostrada M01 che collega la città alla capitale.
Il giorno dopo le autorità locali hanno dichiarato che i russi si stessero ritirando dalla città e dai villaggi circostanti - Shestovytsia, Sloboda, Kolychivka, Yahidne e Ivanivka - che si erano di fatto trasformati nella prima linea del fronte. Ritirandosi hanno lasciato alle loro spalle centinaia di mine e ordigni esplosivi, che impediscono alla città di riprendere a vivere.
A Chernihiv sono stati bombardati ospedali, quartieri residenziali, lo stadio, le scuole, i dormitori, la Chernihiv Polytechnic National University, la biblioteca scientifica, il mercato cittadino.
Tamara l’ha scoperto quando è uscita dal rifugio la prima volta, pochi giorni fa.
Per lei la guerra inizia con il suono della prima sirena, le gambe zoppicanti che scendono nove piani di scale con una coperta sotto braccio e una vicina che l’aiuta a raggiungere il rifugio. Da lì in poi qualche giorno di elettricità a fare luce nel sottoscala e poi più niente, dal sei marzo tutta la regione è rimasta senza elettricità e anche nel rifugio di Tamara si è fatto buio.
I russi fuori continuavano a sganciare bombe, il cibo diminuiva e lei non aveva le medicine per il cuore. Il tempo ha cominciato a farsi buio come lo spazio in cui viveva. Ha perso il conto dei giorni, ha smesso di chiedersi cosa ci fosse fuori. Poi il rumore delle bombe si è interrotto. Ma Tamara ha aspettato ancora due giorni prima di uscire. Nessuno là sotto, credeva alla fine dell’assedio. Molti non ci credono ancora. «Hanno disturbato anche i morti», dice, perché a Chernihiv i combattimenti non hanno risparmiato neppure il cimitero. È stato distrutto un monumento celebrativo per i soldati ucraini caduti durante i combattimenti in Donbass. È stata danneggiata la cappella all’ingresso del cimitero. Intorno, sull’asfalto, i segni dei colpi di mortaio. Tamara è tornata a dormire nel suo letto. A casa sua, che era stato il motivo per cui nei primi giorni in cui ancora i civili provavano a uscire lei non ha mai cercato aiuto per lasciare la città. È sola, i parenti all’estero da tanti anni. La sua casa è l’unica cosa che davvero le appartiene, ci ha messo quarant’anni di lavoro per averla, se il destino era morire l’avrebbe fatto a casa sua. Il due aprile per la prima volta ha percorso i nove piani di scale ed è tornata lì. La notte però continua a non dormire, non c’è ancora elettricità, il cibo arriva a singhiozzo e il tempo è sempre buio come nel rifugio. Si desta al primo rumore. Non crede alla fine dei bombardamenti ma non vuole restare sottoterra. «Mi riporteranno lì da morta, ora voglio stare a casa mia», dice.
Il bilancio delle vittime, qui come altrove, è tutt’altro che chiaro. Il sindaco Vladyslav Atroshenko ha affermato che in città sono state sepolte fino a cento persone al giorno. Bare improvvisate, sepolture di massa in fosse comuni scavate velocemente dai volontari, i parenti arrivano solo ora a cercare e identificare i loro cari.
Chernihiv non è Irpin e non è Bucha, le città a nord ovest di Kiev, anch’esse liberate. Chernihiv alla ritirata non crede e i cittadini temono che questo momento di quiete sia solo temporaneo e serva all’esercito russo per riorganizzarsi e attaccare di nuovo la città.
Marina Momot ha deciso di restare a vivere nel rifugio dove ha trascorso gli ultimi 44 giorni.
È il seminterrato di un istituito tecnico a nord della città. Lavorava lì come cuoca, era arrivata a scuola all’alba del 24 febbraio quando il suono delle sirene ha fermato la città. Marina è tornata a casa, ha preparato una borsa di vestiti e coperte, preso due sacchi a pelo, caricato suo padre in macchina ed è tornata a scuola. Sistemati qui, gli ha detto. Cerchiamo di capire che succede. È passato un mese e mezzo e a casa loro non sono ancora tornati.
Marina scende i due piani che conducono al seminterrato, uno scalino dopo l’altro arriva l’odore aspro dei corpi costretti a vivere ammassati e senza aria, l’odore della malattia degli anziani, l’odore dei corpi che non si lavano da più di quaranta giorni, e l’odore di urina che sale dall’angolo destro dell’ultimo scalino, quello che porta al rifugio. Due secchi di plastica, il bagno per trecento persone.
Un’anziana invalida è distesa, a scaldarla due coperte e un cappello di lana. Si prende cura di lei Alla Sukretna che con Marina divide le responsabilità di cucinare per tutti.
Nei giorni dell’assedio qui hanno vissuto trecento persone. Settanta erano bambini, tra loro una coppia di gemelli di due mesi. Dopo la liberazione sono stati evacuati da un’ambulanza, respiravano a stento. Oggi restano a vivere al buio del sotterraneo un centinaio di persone: chi ha la casa troppo danneggiata, chi non ha più un posto dove andare. Chi ha troppa paura di quello che c’è fuori, perché la gente dice che in alcuni villaggi ci siano ancora i russi, e poi le mine nelle case.
A terra le coperte, i materassi, vestiti scarpe sparsi sui pavimenti. Alcune culle. È buio, a fare luce solo le candele e le due torce nelle mani di Marina e Alla.
Si sono prese la responsabilità di organizzare la vita di tutti, dall’inizio. Hanno diviso il rifugio in cinque settori, nominato una persona per ognuno che ne gestisse i bisogni, stilasse una lista di chi doveva essere evacuato, i bambini, gli anziani, i malati, le donne incinte.
All’inizio della guerra avevano da mangiare, usavano le scorte che ognuno aveva portato da casa.
Poi i volontari hanno smesso di arrivare. I bambini piangevano giorno e notte. È saltata l’elettricità, e hanno cominciato a razionare l’acqua, una bottiglia ogni dieci persone.
Marina e Alla continuavano a compilare le liste da consegnare ai volontari per i corridoi umanitari. Ma i mezzi non arrivavano più, così il dieci marzo, quando hanno capito che dalla città non si entrava e non si usciva hanno smesso di stilare elenchi. Avrebbero scoperto poi che i russi stavano colpendo anche i convogli umanitari e che due persone sono state uccise e quattro ferite nel tentativo di evacuare i civili e portare in città cibo, acqua e rifornimenti medici.
Per non perdere il senso del tempo hanno disegnato un calendario sui muri umidi del rifugio. È ancora lì, a memoria del trauma.
Per Marina la cosa più difficile sono stati i pianti dei bambini. Piangevano giorno e notte. Ora, dice, nelle loro infanzie rubate, della guerra sanno tutto. Ieri Marina è tornata a casa per accompagnare suo padre che è stanco del buio, della sporcizia, dell’umidità e di quella intensa solitudine che ti dà il dover vivere per forza a contatto con gli altri, sotto il loro sguardo, in prossimità delle loro paure.
Poi è tornata al rifugio con l’acqua, le patate e la verza. Resta qui per scelta. Resta qui per gli altri.
A mezzogiorno, come nelle settimane dell’assedio, due persone escono, accendono un fuoco, e preparano un pasto caldo. Prima era molto più acquosa, dice Marina. Oggi siamo fortunati, possiamo abbondare con le patate. Si siede a terra, la torcia sulla fronte a fare luce e con il mestolo riempie di zuppa un piatto alla volta.
Alla intanto porta da mangiare agli anziani che non possono muoversi.
Anche lei resta qui per scelta. Ma anche per paura.
Dopo il ritiro dei russi è tornata a casa sua una volta soltanto ma è stata così a lungo in un rifugio che quando ha varcato la soglia di casa ha pensato che in fondo non avesse più bisogno di niente.
Tutto quello che aveva di fronte, d’improvviso le era estraneo.
Perciò resta a vivere nel rifugio, ogni tanto sale i due piani, arriva al pian terreno, si affaccia a vedere la strada. Se ci sono automobili, se qualcuno cammina. Allora esce, si siede sugli scalini, respira, poi torna sottoterra.