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 2022  marzo 05 Sabato calendario

Da "Solo è il coraggio. Giovanni Falcone, il romanzo" di Roberto Saviano (Bompiani)

Palermo, 1979.
È una strana mattina di settembre, a Palermo. Fa caldo, ma non troppo. Il cielo è grigio, ma non troppo. Potrebbe piovere da un momento all’altro, o le nuvole che velano l’azzurro di una patina umida potrebbero spalancarsi facendo posto al sole. Nulla è ancora detto.
Giovanna apre gli occhi. Vede che Cesare è già sveglio, ha aperto gli scuri e ora sta con la schiena poggiata alla testiera del letto. Gli poggia la testa sul petto. Con l’orecchio ascolta i battiti calmi e regolari del suo cuore. Si meraviglia di come possa sentirsi così tranquillo.


«Sei preoccupato?» sussurra fra la veglia e il sonno.
«No,» risponde lui, e Giovanna apre gli occhi definitivamente. È infastidita.
Perché lei ha paura e lui no? La mafia ha parlato chiaro. Il pentito Giuseppe Di Cristina ha fatto mettere a verbale che il boss Luciano Leggio, detto Liggio, ha emesso una condanna a morte contro il giudice Terranova, e lui, Cesare Terranova, per tutta risposta ha continuato a fare pressioni per ottenere un posto da consigliere istruttore a Palermo. Vuole mettere insieme gli uomini e le prove necessarie per sbattere in carcere quella feccia. E non è finzione, la sua: è sincero quando dice che non ha paura. Il battito del suo cuore lo conferma. Qualche giorno fa ha detto a Giovanna di stare tranquilla: «La mafia non uccide i magistrati. I giudici fanno il loro lavoro e i mafiosi fanno il loro, così è da sempre». Solo che oggi – sarà che il sole non si decide a uscire, o la pioggia ad arrivare – Giovanna non è più certa di nulla. Il fatto che suo marito lo sia, piuttosto che tranquillizzarla la stizzisce un po’.




«Ho fatto un sogno», le dice a un tratto Cesare. Fissa il vuoto davanti a sé. Ha gli occhi di un bambino. Li ha conservati uguali, da quand’è nato cinquantotto anni fa a Petralia Sottana, un paesino arrampicato sulle Madonie, dove d’inverno nevica fino alle caviglie e d’estate, quando il sole picchia, ci si mette con la testa sotto le fontane. «Paolo Borsellino era un ragazzo. Me lo trovavo davanti, in udienza, per una rissa che avevano fatto lui e gli altri studenti di destra, una rissa con i comunisti».
«Ma questo è successo davvero».


«Sì, certo». Hanno riso più volte, lui e Borsellino, di quel vecchio episodio. Cesare prende dal comodino i suoi grossi occhiali e se li mette. Ora non sembra più un bambino. «Solo che stavolta Paolo mi allungava un biglietto». Si fa una risatina. La testa di Giovanna sobbalza sopra il suo petto. «Cioè, provava a mettere questo foglio sul mio tavolo ma i poliziotti lo bloccavano. Però lui insisteva, diceva: “Il biglietto! Il biglietto!”, e quelli se lo portavano via».
«E che biglietto era?».
«Ah, boh». Sono pochissime le volte in cui Cesare ha mentito a sua moglie. Questa è una di quelle. La seconda, nell’arco di pochi giorni.


Si alza con qualche fatica dal letto, infila le ciabatte e si avvia a piccoli passi verso il bagno. Si sente stanco. A cinquantotto anni, ne avrebbe pure diritto. Ha combattuto la guerra mondiale e si è fatto la prigione in Africa; poi, appena messo via il fucile, ne ha cominciata un’altra, di guerra, stavolta disarmato: già nel ’46 era in magistratura, pretore a Messina, poi aggiunto giudiziario a Patti e giudice istruttore a Palermo, infine procuratore a Marsala. Ne ha viste e sentite di tutti i colori. Ha istruito da solo e con certosina pazienza processi di enorme importanza nel contrasto alla mafia palermitana, e scritto fiumi di pagine contro l’Anonima assassini, sessantaquattro sciagurati che hanno colorato di rosso le strade di Corleone con in testa il loro capo Lucianeddu. È proprio Luciano Liggio che ha firmato un anno fa la sua condanna a morte. E Cesare è così spaventato che, dopo averlo saputo, ha dichiarato a un giornalista: «Dimentico spesso la rivoltella a casa, ma non ho paura. Ho visto mafiosi inginocchiarsi e piangere, anche Liggio. Io sono un giocatore di bridge. Amo le carte e gioco per vincere. Luciano Liggio… perderà anche lui. La nostra partita non è finita ma non ho paura».


È così spaventato che ha appeso nel suo studio un disegno, regalo dell’amico pittore Bruno Caruso. In primo piano c’è lui, il giudice, in cravatta e occhiali da sole. Dietro, come un’ombra, il boss. Ogni giorno che Dio manda in terra Giovanna gli chiede se non sarebbe il caso di toglierlo. Ma a Cesare non sembra di cattivo gusto. Anzi, quel ritratto del boss di Corleone con gli occhi stretti come quelli di un pesce e l’aria da tonto gli è diventato simpatico.


E sempre perché è spaventato, ha messo in una cornicetta d’argento la fotografia di Liggio che i colleghi gli hanno regalato con tanto di dedica: Con amore, il tuo amico Lucianeddu. Quando se lo vede davanti, immancabilmente gli scappa una risata. Ma sono risate che gli lasciano addosso un velo di stanchezza, un velo scuro che gli si poggia sulle spalle, così che giorno dopo giorno, velo dopo velo, inizia ad avvertirne il peso. Non parlerebbe di paura, ma di qualcosa di diverso: da quando è cominciato questo suo flirt con la morte ha l’impressione che l’inverno arrivi prima e che l’estate, invece, se ne vada in fretta, che passi giusto per un saluto sull’uscio di casa e poi via, di nuovo freddo, di nuovo buio.
C’è da capirlo quindi, se adesso camminando trascina le ciabatte sul pavimento come farebbe un uomo più anziano.


Quando esce dal bagno, Giovanna sta versando il caffè nelle tazze. La cucina è rischiarata da una luce ingannevole che pare sospesa fra l’alba e il crepuscolo.
«Oggi torni alla carica?» gli domanda. C’è del sarcasmo nella sua voce.
Cesare spalanca le braccia. Lo sa, dovrebbe accontentarsi: l’hanno nominato consigliere presso la corte d’appello, un modo per ricominciare a fare il magistrato visto che per parecchi anni è stato lontano dalla toga. All’inizio, sinceramente, non gli è mancata molto. Merito delle batoste prese con il processo all’Anonima assassini: su 64 imputati, fra cui Liggio e Riina, sono arrivate 64 assoluzioni. Totò Riina è stato condannato solo per il furto di una patente. I giudici hanno scritto che «l’equazione mafia uguale associazione per delinquere, su cui hanno così a lungo insistito gli inquirenti e sulla quale si è esercitata la capacità dialettica del magistrato istruttore, è priva di apprezzabili conseguenze sul piano processuale». Mancava solo che gli facessero le pernacchie. Lui, però, si ostina a ripetere che non è stata una sconfitta. «Li ho fotografati», ha detto a Giovanna appena tornato a casa, con la testa bassa e le spalle flosce. «Non vanno in galera ma li ho fotografati. Prima non avevano una faccia, ora c’è una foto di gruppo. Qualcun altro potrà usarla».


Poi ha tolto il disturbo e si è messo a fare il deputato del Pci. È stato membro della commissione antimafia e si è tolto la soddisfazione di scrivere insieme a Pio La Torre una relazione in cui diversi democristiani, fra cui l’onorevole Giovanni Gioia, l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino e il deputato Salvo Lima vengono accusati di avere rapporti stabili con la mafia.
La toga, però, ora gli manca. La sua ostinazione si aggrappa a qualcosa che nessuno comprende. Forse neanche lui. Vuole tornare a istruire i processi, in prima linea.


Finisce di bere il caffè. Mentre si allaccia le scarpe, gli torna in mente l’immagine del giovane Borsellino con il biglietto nella mano tesa.
S’infila la giacca e tende l’orecchio verso la cucina. Giovanna ha aperto il rubinetto per lavare le tazzine. Cesare si toglie le scarpe e cammina silenziosamente fino allo stipetto del salotto. Prende la chiave e lo apre. Sbircia fra le cartelle dei suoi documenti. Eccolo lì, il biglietto. L’oggetto della sua menzogna. Richiude. In camera da letto ora c’è Giovanna, tornata per l’ultimo quarto d’ora di riposo.
«Che c’è, non trovi le scarpe?»
«Sì, no, ma… Eccole». Sorride, le dà un bacio sulla fronte ed esce dalla stanza. Apre la grande porta e percorre le scale che dal terzo piano lo portano in strada.


Il maresciallo della polizia Lenin Mancuso lo aspetta sotto casa fumando. Si chiama proprio così: Lenin. Questo poliziotto dai tratti marcati, che ricorda certi attori western, figlio di un padre che non doveva avere molti dubbi al momento di recarsi alle urne, è la sua guardia del corpo. Dovrebbe fargli anche da autista, se non fosse che il giudice Terranova preferisce guidare lui.
Cesare lo saluta con due colpetti sulla spalla.


Fanno un po’ di strada fino alla Fiat 131 Supermirafiori azzurra del giudice, salgono, Cesare ingrana la retromarcia.
«Allora?». Mancuso si strofina le mani. «Quanto manca ancora, signor giudice?». Si conoscono da più di vent’anni ma Mancuso continua a chiamarlo «signor giudice» e a dargli del lei. «Gli diamo una raddrizzata a questo Ufficio istruzione o no?».
«Eh… A Dio piacendo».
«Io sono pronto».


«Lo so». Lenin Mancuso non è soltanto il suo guardaspalle. Il maresciallo è anche un ottimo investigatore, il suo fiuto è stato decisivo nell’autunno del ’71, quando lui e Terranova davano la caccia a un uomo che aveva rapito e assassinato tre bambine. Quando Cesare ha presentato Lenin a Giovanna le ha detto che è il suo angelo custode. Ed è così che adesso li immagina lei, stesa sul letto con il sapore del primo caffè sulle labbra e gli occhi socchiusi negli ultimi scampoli di sonno: un giudice e il suo angelo custode in una 131.


«Ma che stanno aspettando? La nomina non c’era già?».
«Sì, certo che c’è», dice Terranova, che nel frattempo è quasi arrivato in retromarcia all’angolo con via De Amicis.
«E allora?».
«Eh, e allora…». Cesare inchioda il piede sul freno, il maresciallo stringe con la mano il sedile. Due auto, sbucate all’improvviso, sbarrano la strada alla Fiat 131. Scendono tre uomini con delle pistole, uno di loro ha una carabina. Non c’è molto su cui ragionare, non c’è tempo neanche per alzare un dito. Mancuso riesce a sfilare la Beretta di ordinanza dalla cintola e si lancia sopra il giudice per coprirlo. Prova a fargli scudo col suo corpo. Ma le pallottole arrivano dappertutto. Cesare sente sul volto il fiato caldo del suo angelo custode, mentre i proiettili lo scuotono come un tappeto. Sente, ancora, che il maresciallo apre lo sportello e spara qualche colpo, ma è tutto inutile. Non puoi difenderti con una pistola contro un fucile automatico, soprattutto se ti hanno teso un agguato.


E allora eccola, la morte. Cesare la vede arrivare. Aveva ragione a prenderla in giro: non è spaventosa. È solo dannatamente stupida. Ha lo sguardo vacuo dello scemo del villaggio. Come nel quadro del suo amico pittore. Se qualcuno non le avesse messo un fucile in mano, la vedresti seduta giorno e notte davanti al bar del paese, la morte, a lamentarsi del caldo e degli acciacchi dell’età. Eppure qualcuno le ha consegnato questo fucile che adesso spara, e continua a sparare, senza neanche sapere bene perché, finché le pallottole non sono finite.


Cesare pensa alla prima delle bugie che ha raccontato a Giovanna, che la mafia non uccide i giudici e ognuno pensa a fare il suo mestiere: perché da qualche anno, invece, il mestiere del mafioso è diventato anche questo, ammazzare i giudici e i poliziotti. La seconda riguarda il biglietto che ha sognato stanotte. Lui sa benissimo di cosa si tratta. È chiuso a chiave nello stipetto della libreria. Sopra c’è scritto:


Non possiedo beni immobili.
Quanto ai beni mobili, desidero che restino tutti in assoluta proprietà di Giovanna. Raccomando a Giovanna di prendersi cura della nostra piccola biblioteca e di far sì che non vengano mai disperse le numerose opere letterarie e storiche, di un certo pregio, che insieme abbiamo raccolto.
Vorrei pure che Giovanna dedicasse qualcosa, come meglio lei crede, alle organizzazioni per la protezione e la difesa degli animali e per la conservazione della natura.
Infine desidero che Giovanna, prima di tutto e di tutti, provveda a dare a mia madre — alla quale auguro lunga e lunga vita — un mio ricordo, a mia madre alla quale va costante il mio pensiero pieno di affetto e di nostalgia degli anni sereni della giovinezza.


Sta pensando a questo, Cesare, alla sua bella madre che gli sopravvivrà, agli anni sereni della giovinezza e a quel paesino arrampicato sulle Madonie dove d’inverno nevica fino alle caviglie e d’estate, quando il sole picchia, ci si mette con la testa sotto le fontane. I suoi occhi, ora che il volto gli è cascato in avanti e gli occhiali sono scivolati sulla punta del naso, sono di nuovo quelli di un bambino. Un bambino addormentato nell’abbraccio del suo angelo custode.


La morte, stupida e meticolosa, gli fa ciao dal finestrino dell’auto per sparargli l’ultimo colpo, mentre il sole scompare una volta per tutte dietro le nuvole. Basta questo perché la pioggia cominci a scrosciare.