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 2021  novembre 15 Lunedì calendario

Intervista a Tim Jackson - su "Post-crescita. La vita oltre il capitalismo" di Tim Jackson (il Mulino)

Capitalismo e buddismo «nascono entrambi dallo stesso punto di partenza»: come affrontare la sofferenza. Ma offrono «percorsi quasi diametralmente opposti» per arrivare a una soluzione. Ora Tim Jackson, economista e docente di sviluppo sostenibile all’Università del Surrey, vorrebbe instillare un po’ più di buddismo nella teoria economica dominante. A oltre dieci anni dal suo libro «Prosperità senza crescita» (Edizioni Ambiente), caposaldo della scuola di pensiero che caldeggia la decrescita felice, Jackson ha provato ad andare oltre con «Post Growth — Life after Capitalism», in uscita in Italia nella primavera 2022.


Al più tardi quando la crescita demografica dell’umanità raggiungerà il suo apice e la popolazione comincerà a declinare, gli economisti dovranno organizzarsi per affrontare la decrescita. Perché non si preparano?


«È quello che mi sono sempre chiesto anch’io. Tanto per fare un esempio, l’input iniziale per scrivere “Post Growth” è venuto dal governo inglese, che mi ha chiesto una consulenza. La richiesta non è arrivata dai ministeri economici, ma dal ministero della Difesa, che mi ha affidato il compito di immaginare uno scenario post-crescita. È interessante notare come la Difesa sia interessata a indagare i rischi strategici degli effetti che la fine della crescita potrà avere sulla società, mentre nessun altro ministero se ne occupa, nemmeno il Tesoro».


Sembra quasi che gli economisti abbiano paura di affrontare l’argomento...


«In un certo senso è vero. Tutte le volte che se ne parla, l’impressione è che molti economisti preferiscano credere che la questione si risolverà magicamente da sola o che ci saranno nuove tecnologie e nuove politiche capaci di sostenere per sempre l’economia in crescita. Già oggi, però, la crescita economica è molto più rallentata di com’era negli anni Sessanta ed è evidente che continuerà a rallentare fino a cessare del tutto quando l’umanità avrà raggiunto il suo picco».


previsioni

Come economista, la fine della crescita non le fa paura?


«Assolutamente no. Il benessere non ha bisogno di crescita, come ho dimostrato nel mio libro “Prosperità senza crescita”. C’è molto più benessere in una vita piena di creazione artistica e di solidarietà comunitaria, piuttosto che in una vita dominata dalla schiavitù del profitto finanziario a tutti i costi. L’importante è allargare la prospettiva delle scienze economiche e includere nei nostri modelli anche i punti di vista di altre discipline, dalla filosofia alla biologia, fino all’ecologia. La soluzione al problema della nostra sofferenza non può essere trovata senza prendere in considerazione quella degli altri, siano essi degli esseri umani o degli animali».


Proviamo a mettere a confronto queste due visioni...


«Il capitalismo dice: “Non puoi sfuggire alla sofferenza, non puoi sfuggire alla lotta, quindi è meglio che cerchi di vincere, diventando il più competitivo e individualista possibile”. Il buddismo, al contrario, dice che la via d’uscita dalla sofferenza è la compassione. Si tratta di capire che la mia sofferenza è ciò che mi connette alle altre persone. Trascurare quella sofferenza e rifiutarla, è in realtà trascurare le mie responsabilità come essere umano. L’unica vera soluzione alla sofferenza, secondo il buddismo, è lavorare per contenere la bramosia per i beni materiali, che è all’origine della lotta».


Tutto ciò è molto filosofico, ma non risolve il problema della sopravvivenza quotidiana...


«Certo che lo risolve, lo risolve molto meglio della risposta capitalistica a quello stesso problema, che ha causato i disastri ambientali in cui ci troviamo immersi oggi e rischia di provocare l’estinzione dell’umanità se non vi poniamo rimedio. Se vogliamo convivere pacificamente gli ecosistemi naturali che hanno garantito fino ad oggi la nostra sopravvivenza, bisogna prendere atto del fallimento di questa ossessione per la crescita».


modello italia

Da cosa deriva questo fallimento?


«Il nostro fallimento deriva da una profonda negazione della morte. La continua espansione economica esprime il desiderio di trascendere i nostri limiti materiali e di elevarci al di sopra dello stato di natura. Ma questo paradossalmente aumenta la potenza di quei limiti, esponendoci all’emergenza climatica».


Quali sono le alternative?


«Dobbiamo riconoscere che la limitazione è ciò che consente la trascendenza. Solo accettando la nostra fragile condizione materiale possiamo sperare di raggiungere qualcosa di più alto e soddisfacente, attraverso una migliore connessione con la natura e con i nostri simili».


Come?


«Per fare questo, è urgente ricalibrare la nostra idea di lavoro. In una società capitalista, la funzione del lavoro è generare profitti a breve termine, intrappolandoci in un presente perpetuo e nella nostra illusione della vita eterna. In una società che riconosce la morte in modo sobrio, invece, il lavoro diventerebbe un prezioso mezzo di costruzione del mondo, forgiando artefatti culturali che durano dopo che ce ne saremo andati e ci connettono con le generazioni future».