Corriere della Sera, 8 aprile 2022
Biografia di Claudio Amendola raccontata da lui stesso
I sessanta li compirà l’anno prossimo, il 16 febbraio. Ma i quaranta di carriera li ha già festeggiati quest’anno. Lavorando. Claudio Amendola ci risponde da Monopoli in un intervallo del set di una nuova serie per Mediaset, Patriarca. «Ho esordito con Storia d’amore e d’amicizia. Me lo ricordo come fosse ieri, il 4 ottobre 1981, mio padre Ferruccio sulla soglia di casa: “Ah regazzi’ vai a lavorare in un posto dove ci sono cento persone che dipendono dal bel faccione tuo, vedi che poi fa’».
Ma fu merito di sua mamma, Rita Savagnone.
«Vero. Mi disse che il regista, Franco Rossi, cercava un ragazzo con una faccia tipo la mia. Io non ci pensavo, non avevo il sacro fuoco della recitazione, pensavo che avrei fatto qualcosa prima o poi. Meglio poi. Tipo l’intrattenitore nei villaggi Valtur».
Morale?
«Andai al provino come a un colloquio per fare il commesso, più per fare un favore a mamma. E mi sono trovato in un letto con Barbara De Rossi. Poteva andare peggio».
Cercando in archivio articoli su di lei escono descrizioni così: «È considerato il gladiatore del cinema italiano e, secondo alcuni, l’erede naturale di Renato Salvatori. Attore sanguigno, macho bello e bravo, il cui volto da duro e il sorriso beffardo gli hanno concesso la nomea di sex symbol made in Italy. Si riconosce nel ritratto?
«Non posso mentire, certo che mi riconosco. È stato così, in parte lo è ancora, è una summa generosa di quello che ho fatto. Mi lusinga il paragone con Renato Salvatori che mi accompagna dall’inizio».
Rimpianti professionali?
«Non aver fatto Il bagno turco di Ozpetek».
Perché non lo fece?
«Perché non mi credevo giusto, non pensavo di essere capace, non avevo capito Ferzan, perché sono un coglione. Non ero abbastanza maturo per capirlo».
Come le è venuto in mente di fare un film come i «Cassamortari»? Volontà di esorcizzare la morte?
«La morte mi ha sempre affascinato con tutto il dolore che ne consegue, la ritualità, rispetto per chi se ne va e chi resta. Io cerco sempre di trovare un lato per sdrammatizzare, cerco sempre il lato positivo, il bicchiere mezzo pieno, è la mia forza e anche il mio limite, questione di carattere. Ai funerali succedono sempre cose divertenti, è imbarazzante, non è bello dirlo, ma ho assistito a scene che mi hanno fatto ridere. E il mondo dei servizi funebri, che a Roma chiamiamo cassamortari, mi ha sempre incuriosito. Prima li vedi con le facce di circostanza, rispettosissime e poi appena il corteo entra in chiesa, si appoggiano alle colonne, fumano, cazzeggiano».
È vero che George Clooney le ha dato buca?
«L’ho scritto con una sceneggiatrice italoamericana, volevo ambientarlo in Usa con lui che cadeva da cavallo sul lago di Como e si rovinava la faccia. E quelli delle onoranze funebri che gliela ricostruivano per il funerale. Ho scritto una lettera all’avvocato di Clooney»
E?
«Non mi ha risposto. Così ho riportato la storia in Italia, racconta abbastanza le nostre bassezze».
E ha tirato in mezzo Piero Pelù, Gabriele Arcangelo, in morte e resurrezione.
«Mi sarebbe piaciuto fare il rocker, non la rockstar precisiamo. Credo che sia l’unico mestiere che invidio veramente. Se avessi avuto il talento necessario».
Il primo concerto se lo ricorda?
«E chi se lo scorda? Il primo forte forte, che più mi ha sconvolto, quello dei Clash a Firenze, poi, ma ero già più grandino, quello dei Pink Floyd. Sono cresciuto con quella cultura musicale, con quei gruppi che non potevi mai vedere e che mitizzavi. Per dire, i Led Zeppelin erano venuti a Milano quando io avevo nove anni. Però poi ho visto Robert Plant se ricordo bene all’Isola d’Elba. Era un vecchio ormai».
Ha lavorato con grandi registi, Marco Risi, Marco Tullio Giordana, Ettore Scola, Carlo Mazzacurati, Patrice Chéreau solo per citarne alcuni, ma non ha mai disdegnato la tv, non solo fiction e serie ma anche programmi pop, «Amici», «Miss Italia», «Domenica in», i talkshow, le trasmissioni di calcio. Perché?
«La verità è che in televisione mi diverto tantissimo, la prendo con grande leggerezza. Sono consapevole che la mia popolarità viene principalmente dal piccolo schermo, molto più che dai film, seppur ne ho fatti di importanti. È la tv che dal 1981 mi porta dentro la casa della gente, a quasi sessant’anni me ne faccio un vanto».
Ci è appena tornato con la terza stagione di «Nero a metà».
«Come Giulio de I Cesaroni, ci sono personaggi che mi accompagnano, a cui voglio bene. All’ispettore Carlo Guerrieri sono molto legato, quest’anno ho fatto anche la regia, ereditata dalle sapienti mani di Marco Pontecorvo, mi godo il rapporto con gli attori, tutti, bravissimi, e il fatto di aver innestato nel poliziesco, situazioni di commedia, cose che fanno ridere».
Non ha finito il liceo, le pesa?
«Ormai è un dato di fatto acquisito, ho passato la fase in cui me ne facevo un cruccio. Me ne sono fatto una ragione. E anche quella in cui me ne vantavo, per fortuna. Ci sono lacune che, senza la scuola, non recuperi più. Come la filosofia, la letteratura, cose che è giusto studiare da giovani, quando sei una spugna. Poi ci puoi provare ma non hai più la voglia o il tempo necessario per recuperare. O forse lo troverò, chissà?
Cosa le dà fastidio che dicano di lei?
«So poco quello che dicono di me, non ho i social, non faccio vita mondana, ho zero frequentazioni dell’ambiente. Una cosa mi dispiace».
Ovvero?
«Quando, è capitato raramente ma è capitato, sono stato descritto come arrogante, coatto veramente. Non lo sono, lo faccio al cinema. Lo ritengo una calunnia e mi ferisce. Sono uno pacato e accondiscendente, fino a un limite che non permetto a nessuno di superare. Ho grande rispetto per il lavoro di tutti. Contano molto i rapporti che hai con tutti quelli che lavorano con te. Mica mi danno retta solo per il faccione mio, come diceva Sordi».
I suoi figli le danno retta?
«Ho rapporti buonissimi con loro, sono fortunato. Alessia e Giulia – nate dal legame con Marina Grande, ndr — sono donne adulte con vite ormai sicure, le stimo molto».
E Rocco, nato dal suo matrimonio con Francesca Neri?
«A lui qualche no l’ho detto, avevo più pratica. Ha 23 anni, dopo la pandemia ha iniziato a lavorare nella produzione, la parte meno gloriosa del set, la più faticosa. Sta facendo una bellissima gavetta, dal gradino più basso. E questo, non nascondo, mi riempie di orgoglio.
Chi sono i suoi amici, con chi si rilassa?
«Io cerco di stressarmi il meno possibile, questo lavoro dipende da come lo prendi. Mi rilasso molto con i nipoti, con i miei figli, mi rilassa molto giocare a golf anche se mi incazzo perché non la pijo mai. Mi rilasso sul divano a vedere la televisione».
Golf, divano, e il macho gladiatore?
«Invecchiare è un gran vantaggio. Impari anche a goderti la compagnia di te stesso. Per esempio, mi piace andare al ristorante da solo, mi faccio ricchi pranzi. Come andare al cinema. Il mio maestro Carlo Vanzina andava sempre al cinema da solo».
Che ricordo ha di lui?
«Stupendo. Avevo lavorato con suo padre, il dottor Steno, che mi prese in simpatia, ci ho passato tante serate sublimi. E ho ritrovato la stessa gentilezza e signorilità in Carlo. Era davvero un gran signore, sopportava le critiche – e ne ha avuto tantissime –, con un gran sorriso. Li chiamava “quegli intelligentoni”. Era un grande cinefilo, tra l’altro. Il cinema suo e di Enrico faceva storcere il naso a quella sinistra di cui faccio parte anche io. Dava fastidio che i loro film, soprattutto quelli sull’edonismo degli anni Ottanta, raccontassero il Paese in maniera più diretta di quelli di tanti autori. Non gli è stato riconosciuto che aveva su questo Paese un occhio più disincantato e più vicino alla commedia dei grandi maestri di tanti loro colleghi. Hanno avuto anche un altro merito».
Quale?
«Lo hanno fatto incassando anche soldi. Ci ha fatto lavorare e guadagnare tutti. Come pure Vittorio Cecchi Gori».
Di chi altro sente la mancanza?
«È un po’ di tempo che mi manca papà. Non so perché, forse perché sto invecchiando, mi piace camminare, mi sveglio presto la mattina, faccio lunghe camminate, normalmente a Villa Borghese. L’altro giorno sono arrivato al Verano, e sono andato a trovarlo. Era tantissimo che non ci andavo. Mi ha fatto tanto piacere».
Nel 2014 ha debuttato alla regia con «La mossa del pinguino» su un’improbabile squadra di curling: Edoardo Leo, Ricky Memphis, Fassari e Ennio Fantastichini. Se l’immaginava l’Italia che a Pechino 2022 l’Italia vincesse un oro?
«Sinceramente, chi poteva immaginarselo? Quelli delle Olimpiadi sono stati giorni entusiasmanti, verso i quarti di finale le telefonate hanno iniziato a infittirsi, volevano sapere come mi era venuto in mente di fare quel film. È stato bello essere un po’ premonitori. Lo hanno rimandato in onda le tv e sono stato felice. Ma no, non mi darò al curling, mi basta il golf».
Visto che ha fatto un film sui funerali, ci pensa mai al suo?
«Mettiamola così. Mi piacerebbe tantissimo aver vissuto tutto quello che la vita mi offre perché le persone che lascio siano sorridenti, che possano dire: il papà, mio marito, il mio amico ha vissuto bene, va bene così. Vorrei un funerale allegro. Dove si canta».
Cosa?
«Forse Il cielo è sempre più blu di Rino Gaetano».