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 2022  aprile 08 Venerdì calendario

Di cosa parlano i soldati russi con le loro famiglie


I soldati russi usano spesso radio non criptate per comunicare tra loro e telefonini comuni per parlare con casa. Per i servizi segreti occidentali è stato facile intercettare comandi tattici e trasmetterli in tempo reale agli ucraini. Per le compagnie telefoniche del Paese è stato ancora più semplice tenere sotto controllo le sim che chiamavano numeri russi. Ne è uscito un quadro sconvolgente della loro condizione di vittime oltre che di carnefici della guerra.
I servizi segreti tedeschi, Bnd, sono riusciti ad accoppiare le loro intercettazioni radio con il video registrato da un drone che aveva già sconvolto il mondo. Combaciano l’ora e la geolocalizzazione. Il filmato mostra un carro armato che mira e centra un civile che si muove tra le macerie del villaggio. Ha le mani sul manubrio, non appare minimamente in grado di nuocere al corazzato. Anche così, dalle immagini mute in bianco e nero, appare un’esecuzione crudele e ingiustificata. L’intercettazione tedesca rende ancora più assurdo quel colpo: pochi secondi o minuti dopo l’orario segnato sul film del drone, dallo stesso luogo, un soldato comunica euforico ad un collega «abbiamo sparato a un ciclista». Come si trattasse di un successo al tiro a segno.
Le intercettazioni tedesche, visionate da Der Spiegel, sembrano mostrare un modus operandi per il quale le stragi immaginate guardando i cadaveri di Bucha e Borodyanka non sono affatto il risultato di schegge impazzite o reparti fuori controllo. Dagli accenti e dai nomi dei soldati intercettati, appare che dopo la conquista compiuta da militari molto giovani, siano arrivati anche elementi più anziani, sicuramente ceceni e forse anche mercenari del gruppo Wagner. Nelle conversazioni dei soldati le atrocità sono descritte come giochi o come banali ordini portati a termine. La violenza che semina terrore diventa così arma di guerra per piegare la volontà di resistenza del popolo e dei militari. La regola, spiegata da un soldato all’altro, era «prima si interrogano i soldati prigionieri, poi si spara».
Dai cellulari dei soldati russi, emergono attraverso l’intelligence ucraina, racconti di un abbruttimento umano che lascia sgomenti. Un militare delle milizie indipendentiste filorusse telefona alla compagna che sembra vivere in un’area occupata dalle truppe di Mosca. Lui parla in russo, lei gli risponde, piangendo, in ucraino.
«Serghey, tu non puoi capire quel che sta succedendo qui. I soldati ammazzano, sparano, violentano anche i bambini».
«Lo dici per sentito dire o perché l’hai visto?»
«Non volevo dirtelo, ma non riesco più a stare zitta. Quando sono arrivati, gli abbiamo aperto la porta, gli abbiamo dato pane e salame. Ma poi di notte sono tornati con delle taniche di benzina. Ve le diamo in cambio delle due ragazze. Capisci? Avevano 13 e 15 anni».
«Ma chi ha fatto una roba del genere?»
«Non lo so. Avevano la fascia rossa».
I russi chiamano spesso con disprezzo gli ucraini «kholki». È un riferimento all’immagine folklorica degli antichi cosacchi con i baffoni e il ciuffo sulla testa rasata. Un soldato telefona a quella che sembra la moglie. Entrambi infilano una parolaccia dietro l’altra che, qui, sono lasciate all’immaginazione.

«Questi khokli ci fanno soffrire».
«Ho paura, guarda che sono già andata al funerale di tre tuoi coscritti. Non farti fregare».
«A me lo dici? Il comandante ha detto che meritiamo la medaglia, ma io gli ho risposto di tenersela e di rimandarmi a casa».
«Ma perché non li sterminate tutti questi khokli?»
«Credi sia facile? Non è mica un film questo. Da quando sono qui, non ho visto ancora un soldato ucraino. Gli spariamo le cannonate. Mica è semplice beccarli».
Nel gergo militare, sin dai tempi sovietici, i russi si riferiscono alle perdite come «carico 200» e ai feriti come «carico 300». In questa intercettazione, sempre zeppa di volgarità, un soldato sembra parlare con la sua compagna.
«Eravamo 80 e siamo rimasti in 13. Da giorni non faccio altro che caricare cadaveri. Carico 200 e carico 300».
«Tu però stai attento?».
«È da due settimane che vivo sottoterra. Ho paura di ogni rumore che sento. Quando torno, se torno, penso che dovrei chiedere di andare a lavorare al camposanto. Al carico 200 ormai sono abituato e almeno lì c’è silenzio. Guarda, a Capodanno non voglio neanche sentire i fuochi d’artificio. Penso che mi chiuderò in cantina».
Lui chiama la moglie.
«Ho già sentito la mamma e mi ha raccontato della bambina. È vero che a scuola hanno fatto una colletta per i soldati al fronte?».
«Sì è vero, ma non solo soldi, anche oggetti, cibo, regali».
«La bambina ha preparato dei guanti per me, mi ha detto mamma».
«Ti ha anche spiegato cos’ha scritto sul bigliettino?».
«No, cosa?».
«Papà, devi sbrigarti ad uccidere tutti gli ucraini così torni presto a casa».
I due genitori ridono.
Un soldato telefona al padre. Hanno entrambi l’accento delle estreme regioni orientali della Federazione russa. Potrebbero essere di Buriazia e Carcassia confinanti con la Cina. In quelle steppe i molossi turkmeni, gli alabai, sono cani diffusi, utili per difendere le greggi e le case dai lupi.

«Avete da mangiare? Siete a posto?»
«Sì, sì, siamo a posto. Abbiamo tutto. Anzi ieri abbiamo anche mangiato un alabai».
«Davvero? Un alabai? Era buono?».
«Eccome. E comunque ho trovato anche una sorpresa per la mamma e un iPad per mia moglie».