La Stampa, 8 aprile 2022
Non una parola di più
Da ragazzo leggevo a bocca aperta le corrispondenze dei grandi inviati di guerra, fossero corrispondenze distanti nel tempo, consegnate alla storia e a libri già dal sapore epico, o corrispondenze attuali, di guerre in corso e comunque distanti, perché scoppiate nell’altra pagina dell’atlante. Non c’era la diretta di ventiquattro ore in tv e sui siti, né i social a fare da sentinella, tutto sembrava remoto, era letteratura e alta, era docufiction e, per quanto l’orrore fosse comunque orrore, la si leggeva come opere di Kipling o di Conrad. Oggi i nostri inviati di guerra sono sotto le stesse bombe, lo stesso tiro di cecchini, indossano elmetti e giubbotti antiproiettile, producono ogni giorno video e articoli, si mischiano ai vivi e ai morti, sono ricoperti di polvere e ci sembrano vicini anche se i nostri salotti gli sono lontani. Nessuno di loro saprà toccare le vette di Montanelli o di Fallaci, ma io li leggo ancora a bocca aperta e come se leggessi Kipling o Conrad. Perché ognuno è figlio del suo tempo, e magari Montanelli e Fallaci scrivevano sentendosi al centro della Storia, mentre gli inviati di oggi alla Storia ci stanno in mezzo. Non sono loro i protagonisti, la Storia lo è. Ed è persino meglio. I nostri inviati di guerra, penso di poter dire nessuno escluso, sono il meglio che questo paese abbia dato in queste settimane. Mentre noi qui abbiamo affastellato emozioni e indignazioni e invettive, e le abbiamo ridipinte di aggettivi per ergerci a vittime o eroi da talk show, loro hanno soltanto messo le parole dove andavano messe, senza sprecarne una. Hanno da raccontare, e gli basta e avanza.