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 2022  aprile 08 Venerdì calendario

BERLUSCONI ROVINATO DALLE DONNE! – IL BOMBASTICO LIBRO DI FILIPPO FACCI: ‘’FU UNA TALPA FEMMINILE, BEN NOTA AI CRONISTI MILANESI, CHE IL 21 NOVEMBRE 1994 PASSO’ AL ‘CORRIERE DELLA SERA’ LA NOTIZIA CHE IL PREMIER BERLUSCONI ERA INDAGATO PER MANI PULITE MENTRE PRESIEDEVA A NAPOLI UN SUMMIT MONDIALE SULLA CRIMINALITA’ - L’INCREDIBILE RACCONTO DELLO SCOOP SCIPPATO A PAOLO FOSCHINI DI ‘AVVENIRE’, IL TRADIMENTO DI GIANLUCA DI FEO, GOFFREDO BUCCINI E LA SUA TALPA IN GONNELLA - MIELI STAVA SOLO INSCENANDO UNA DELLE SUE MIGLIORI COMMEDIE? A INFORMARLO ERA STATO IL QUIRINALE DI SCALFARO? AH SAPERLO… -

A carico di Silvio Berlusconi, il 21 novembre 1994, la procura opto per un «invito a comparire per persona sottoposta a indagine» (non un avviso di garanzia, come dicono ancora oggi) secondo l’articolo 375 del Codice di procedura penale: in pratica era un appuntamento obbligato per essere interrogati. Una convocazione.

A scriverlo materialmente fu Di Pietro. Era composto da quattro pagine: la prima conteneva il nome di Berlusconi e due capi d’imputazione legati a presunte tangenti legate a Mediolanum e Mondadori, mentre nelle altre tre il Cavaliere era accusato per tre tangenti alla guardia di finanza legate a delle verifiche nelle societa Videotime, e ancora Mediolanum e Mondadori. Il dettaglio e importante, perche la fuga di notizie riguardera solo una pagina: la prima.

Il procuratore capo Borrelli diede un’occhiata al provvedimento prima di passarlo a Davigo affinche procedesse all’iscrizione nel registro degli indagati. Poi Di Pietro parti per Parigi, si vedra piu avanti perche: probabile, tra l’altro, che volesse sottrarsi a ogni sospetto in caso di fuga di notizie, perche null’altro avrebbe giustificato una sua assenza in un momento del genere.

Dopodiche, eccezionalmente, Davigo scelse di non fidarsi del consueto passaggio dalla cancelleria (dove circolavano sempre una decina di persone) e decise che l’iscrizione dell’indagato dovesse passare dal computer del suo ufficio, che pero – si accorse – non era abilitato a quel genere di registrazioni. Allora si rivolse al capo della cancelleria e chiese se poteva mandargli un ingegnere per modificare il programma; cosi fu, anche se, tra una cosa e l’altra, se ne ando un’ora e mezza. I cronisti lo notarono.

Era quasi mezzogiorno e in corridoio, d’un tratto, transitarono rispettivamente il comandante regionale e quello provinciale dei carabinieri, Nicolo Bozzo e Sabino Battista, agghindati con la mantella di gala perche probabilmente strappati a qualche cerimoniale. Alcuni giornalisti notarono anche loro. Gianluca Di Feo fece una prima telefonata al suo capocronista, Alessandro Sallusti, e gli disse che aveva notato movimenti strani. E vabbe, movimenti strani.

Si videro anche a pranzo. Il suo collega Goffredo Buccini aveva fama di apprensivo sino alla paranoia, ma Di Feo aveva invece posture da «mitomane», o perlomeno fu questa l’espressione che Buccini aveva utilizzato nel lamentarsene con il suo capocronaca: «Quando Ettore Botti mi ha comunicato che sarebbe stato il mio secondo», scrivera Buccini, «ho storto la bocca: le poche volte che ci eravamo parlati si atteggiava a segugio d’inchiesta e sosteneva di essere talvolta pedinato da qualcuno».

Comunque i due alti ufficiali stavano andando da Borrelli, il quale, dopo i saluti di rito, chiese loro dove si trovasse quel giorno il presidente del Consiglio. Gli risposero che era a Napoli, ma che nel pomeriggio, per quanto sapevano, sarebbe rientrato a Roma. In realta non c’era bisogno di convocare quegli alti ufficiali personalmente: fu un modo per responsabilizzarli in vista del delicato incarico che senza dubbio rappresentava recapitare a un presidente del Consiglio quella busta gialla, l’invito a comparire.

Il quale riemerse dal suo ufficio attorno alle 14 e accompagno gli alti ufficiali all’ascensore. Qui incrociarono ancora Gianluca Di Feo del «Corriere», figlio di un carabiniere ed esperto di cose di carabinieri: il quale, cortesemente e con la sua voce garrula, chiese quale gradevole ragione avesse portato i due alti ufficiali a transitare proprio da quelle parti.

Davigo rispose motivando la presenza dei due con una frettolosa cazzata: era il giorno della Virgo Fidelis – disse – patrona dell’arma dei carabinieri; ma Di Feo, da secchioncello, fece notare che durante la festa della Virgo Fidelis erano i magistrati che andavano in caserma dai carabinieri, non viceversa. Piccolo imbarazzo. E piccolo segnale, ma solo uno dei tanti, uno dei tantissimi che da settimane allertavano i giornalisti dopo il «preavviso» a Berlusconi annunciato da Borrelli nell’intervista del 5 ottobre. La gaffe sulla Virgo Fidelis verra venduta come intuizione geniale, anche se da sola contava sino a un certo punto.

I due ufficiali intanto, per via gerarchica, avevano passato la busta gialla al tenente colonnello Emanuele Garelli e al maggiore Paolo La Forgia, subito partiti per Roma vestiti in borghese e con un’auto con targa civile. La Forgia aveva gia recapitato avvisi di garanzia a Bettino Craxi, al repubblicano Ugo La Malfa e al liberale Renato Altissimo, tre segretari di partito.

In procura, in realta, un solo giornalista aveva gia saputo con certezza che l’invito a comparire per Berlusconi era stato firmato: Paolo Foschini di «Avvenire». Lui e soltanto lui. Non sapeva che la busta gialla era pure gia partita verso il destinatario, ma per quel tipo di provvedimento era da darsi per scontato. Tutto il resto – gli ufficiali, il tecnico dei computer, mille altri dettagli – apparteneva alla sfera del sempiterno clima di preallerta che da settimane regnava tra cronisti ormai ipertesi.

Piu tardi, alla macchinetta del caffe, Davigo incontro ancora Di Feo assieme a Foschini e Cristina Bassetto, la mia amica ex dell’«Avanti!» che era passata all’agenzia Adnkronos; parlarono ancora dei due ufficiali, e Davigo si lancio in un elogio del comandante Bozzo, del quale – disse – in procura si fidavano ciecamente. Quel suo volerlo sottolineare rafforzo altri sospetti.

Con i soli sospetti, pero, non ci facevi niente. E neanche con una notizia certa ma priva di una pezza d’appoggio: Paolo Foschini sapeva che per scrivere gli occorreva ben altro, e tanto piu su un quotidiano particolare come il suo. Il pool dei giornalisti, in quel periodo, si era ormai sfaldato e marciava stancamente, impigrito, diviso in base piu ad amicizie personali che alla necessita di coprire le poche notizie che circolavano.

Buccini i primi di ottobre era stato promosso inviato e Paolo Mieli l’aveva addirittura trasferito a Roma (in albergo, per cominciare), si era quindi sganciato dalla cronaca di Milano e un po’ anche dal vecchio sodale Peter Gomez, passato intanto dal «Giornale» alla «Voce»; i cronisti della «Repubblica», del «Corriere» e della «Stampa» andavano sufficientemente d’accordo tra loro (Colaprico e Fazzo nella prima, Di Feo e Buccini nel secondo, Fabio Poletti nella terza) e poi, su un apparente altro fronte, c’era il solito Paolo Colonnello del «Giorno», affiancato dall’intelligenza timida e incattivita di Luigi Ferrarella, entrambi finalmente liberi dalle vessazioni dell’ex direttore Paolo Liguori.

Poi c’erano due grandi amici, Renato Pezzini del «Messaggero» e Paolo Foschini di «Avvenire»: Foschini era un educato e pigro pischello che nel suo primo giorno nella sala stampa del tribunale era stato accolto quasi con tenerezza, guidato in un tour in procura da Michele Brambilla del «Corriere» e appunto da Renato Pezzini, con cui lego molto. Poi c’era qualche eccezione solitaria e altri un po’ a rimorchio.

Foschini aveva un discreto rapporto anche con Gianluca Di Feo del «Corriere» e tanto gli basto per tentare un azzardo, nella consapevolezza che la notizia che aveva non avrebbe potuto scriverla da solo su «Avvenire». Gli serviva una spalla. E robusta. Prese da parte Di Feo e gli rivelo che Berlusconi era indagato e che ne era proprio certo, e che forse loro due, alleandosi, avrebbero potuto trovare i riscontri necessari per poter scrivere che un presidente del Consiglio era nelle spire di Mani pulite.

Di Feo si disse d’accordo, accetto almeno formalmente: facile che pero immaginasse gia tutto un altro film che tra i protagonisti non prevedeva testate concorrenti, neanche un peso piuma come «Avvenire»: corse dal capocronista Alessandro Sallusti e rivendette la notizia come solo sua; di Foschini non fece alcun cenno. Berlusconi era indagato e urgeva la presenza di Goffredo Buccini perche aveva – era noto – una talpa particolare in procura che poteva rivelarsi decisiva. Foschini, invece, allerto l’amico Pezzini del «Messaggero» che quel giorno era fuori Milano per servizio.

Buccini intanto era «sul pezzo» come poteva esserlo uno che era stravaccato su una poltrona a intervistare Ignazio La Russa, a Roma. La telefonata di Di Feo lo riporto dal torpore capitolino alla consueta iperagitazione da cronaca giudiziaria: s’involo per Milano senza neppure ripassare dall’albergo e preallerto – o fece preallertare, piu probabilmente – la sua fonte in procura, una donna che in precedenza non si era dimostrata insensibile al fatto che lui fosse un uomo, un rapportarsi che non era un segreto assoluto. L’invito a comparire intanto stava per giungere nella capitale.

Buccini atterro a Milano verso le 19 e passo direttamente dalla sua fonte «al solito posto», vicino alla procura. I colleghi si erano gia salutati ed erano tornati nelle rispettive redazioni a scrivere oppure a non farlo. La fotocopia, o stampata che fosse, fu finalmente nelle sue mani, anche se alla fine era un foglio solo: il primo di quattro, ma questo lui non poteva saperlo. For- se era stata stampata in un solo foglio per errore o per fretta, vai a sapere. Buccini riapparve in redazione verso le 20.30 e intanto era tornato anche il direttore Paolo Mieli, rimasto fuori tutto il giorno – pur aggiornato per telefono – e reduce dalla presentazione di un libro.

Gli ufficiali dei carabinieri intanto erano giunti a Palazzo Chigi – erano ormai le 19.30 –, ma Berlusconi non lo trovarono: c’era solo un consigliere diplomatico che chiamo il sottosegretario alla Presidenza, Gianni Letta, che a sua volta chiamo Berlusconi il quale non si era mai mosso da Napoli. Verso le 20, gli ufficiali chiamarono Borrelli per sapere che cosa dovevano fare.

Il procuratore, il quale aveva ricevuto un’ansiosa telefonata di Buccini a cui aveva risposto picche, aveva fretta che Berlusconi sapesse del provvedimento (figurarsi che cosa sarebbe successo se la notizia fosse trapelata prima della notifica) e li autorizzo a telefonare al Cavaliere per leggergli l’atto, cosa di cui si incarico il comandante Emanuele Garelli.

La chiamata, pero, duro meno di un minuto, perche stava per cominciare il concerto di Pavarotti al teatro San Carlo. Berlusconi capi soltanto che c’erano grane in vista. Rimandarono a piu tardi, e fu il Cavaliere a richiamare alla fine del concerto, verso le 23: si sorbi la lettura solo della prima pagina, perche a un certo punto si stufo, e, seccato, diede appuntamento agli ufficiali per l’indomani, a Palazzo Chigi, alle 14.

Intanto, al «Corriere», Gianluca Di Feo viveva la sua ansia da tradimento e Goffredo Buccini viveva la sua ansia e basta. Mieli, in ogni caso, faceva la parte del direttore a cui nessuna conferma poteva bastare: in sostanza lo «scoop» di Buccini e Di Feo consisteva nella pubblicazione di una carta giudiziaria incompleta prima che degli alti ufficiali la consegnassero completa al destinatario, consistette nell’averla anticipata di qualche ora prima che il destinatario la rendesse nota comunque, consistette nell’aver impedito che il destinatario potesse gestirla mentre il nostro paese aveva puntati addosso gli occhi del mondo, consistera – ma di questo il «Corriere» non ha colpa diretta – in una robusta spallata che quantomeno favorira la caduta di un governo, consistera nell’inizio di un procedimento penale che condurra l’indagato a un’assoluzione per non aver commesso il fatto.

E consistera in uno «scoop» che nei libri di Bruno Vespa, non per sua colpa, sara descritto come la scoperta dello scandalo Watergate con tanto di inesistente «gola profonda» (che era un comandante generale della vicina caserma di via Moscova, che si limito a rassicurare Di Feo senza dirgli nulla) e sara descritto prefigurando inesistenti e tenebrosi incontri in improbabili parcheggi sotterranei come in Tutti gli uomini del presidente con Robert Redford e Dustin Hoffman, quando invece la fonte primigenia era una donna che lavorava in procura, la quale aveva allungato una fotocopia a Buccini, anche se lui per anni parlera di una «una fonte molto qualificata» che gli aveva confermato la notizia.

La notizia, dunque, fu scoperta da Paolo Foschini, non dal «Corriere», che altrimenti non avrebbe cercato conferme di alcunche. Foschini fu sostanzialmente tradito dall’amico Di Feo e le «conferme» alla fine furono le seguenti: 1) un foglio passato da una femmina non estranea ai propri sentimenti che forni una sola fotocopia su quattro;

2) una chiamata di Buccini a Borrelli alle 21, con il procuratore che «mi attacca praticamente il telefono in faccia ma non smentisce chiaramente», anche se un’altra fonte sostiene che la risposta fu: «Come si permette di chiamarmi a casa e farmi questa domanda, non si permetta piu di fare una cosa simile»;

3) poi un’altra chiamata di Buccini a Davigo che smenti ancora piu chiaramente – questo almeno ha scritto Davigo in un suo libro – o che, secondo un’altra fonte, rispose cosi: «Ma le sembrano cose di cui parlare con un magistrato?». Clic;

4) a questo aggiungiamo le infruttuose telefonate di Di Feo a vari carabinieri che fornirono «smentite non convincenti», perche ormai al «Corriere» si basavano su questo: su quanto le smentite fossero «non abbastanza convincenti» o su quanto le smentite non fossero abbastanza smentite. Entrambi i giornalisti registrarono dei nastri con tutte le telefonate. Mieli non sembrava convinto per niente;

5) ma poi, verso le 23, Gianluca Di Feo fece un’ultima scappata in via Moscova, da un comandante dei carabinieri amico suo a cui fece una scena madre dicendogli che, se avesse sbagliato l’articolo, sarebbe stato rovinato per sempre, la sua famiglia sarebbe stata coperta di ridicolo, avrebbero chiuso il «Corriere»... cose del genere. In pratica chiese all’ufficiale di fermarlo prima che fosse troppo tardi.

L’ufficiale diede a Di Feo una pacca sulla spalla e gli rispose soltanto: «Gianluca, vai a casa, sai che ti voglio bene». E questa e una frase che in via Solferino ritennero fondamentale, perche, se la notizia fosse stata falsa, il generale amico avrebbe reagito diversamente. E lecito pensarlo, quell’uomo era un amico storico e familiare di Di Feo e l’amicizia era importante: anche se, forse, da principio l’aveva pensato anche Paolo Foschini.

Di Feo tuttavia trasformera quella banale «conferma» ottenuta nella caserma in via Moscova (e che era molto piu conferma di tutte le altre messe insieme) in una serie di oscuri dialoghi telefonici con un’inesistente «gola profonda» di cui saranno infarciti i libri di Bruno Vespa.

Nel contempo in via Solferino si era creato un surreale doppio binario: ai piani superiori c’erano il caporedattore Antonio Di Rosa, il vicedirettore Giulio Giustiniani e il vicecaporedattore centrale Paolo Ermini (non e chiaro se ci fosse anche il vicedirettore Ferruccio de Bortoli) i quali erano all’oscuro di tutto e avevano gia disegnato una prima pagina senza la notizia su Berlusconi; mentre al piano inferiore, nella stanza chiusa del capocronista Alessandro Sallusti, assieme a lui c’erano Di Feo, Buccini e Mieli che preparavano un’altra prima pagina con l’ausilio di quello che in gergo si chiamava «proto», un tecnico di composizione tipografica.

Ma se l’atmosfera si stava facendo pesante non era solo per la tensione: era gia da un po’ che i colleghi della giudiziaria avevano cominciato a chiamare per il consueto giro delle telefonate serali. Alle 21 aveva chiamato anche Foschini a cui Di Feo aveva risposto: «Nessuna novita». L’«Avvenire» di Foschini chiudeva prima degli altri perche alle 23 andava gia in stampa. Aveva chiamato anche Peter Gomez della «Voce», che per Buccini era piu di un fratello: avevano fatto la scuola di giornalismo insieme, scritto libri a quattro mani, stretto alleanze di ferro quando il pool dei giornalisti non esisteva, avevano condiviso e sognato la stessa professione e, ora, lo liquidava con un secco: «Nessuna novita».

Gomez, proprio in quei giorni, stava aiutando Buccini e Di Feo a riaprire un canale con Di Pietro, che con il «Corriere» non aveva piu voluto parlare dopo che l’amico Goffredo aveva raccattato una letteraccia amarissima che Di Pietro aveva scritto il giorno prima che morisse sua madre, a Vasto, dove Buccini oltretutto era andato facendo da autista a Davigo e Colombo: poi il Tonino sofferente aveva deciso di non farne piu nulla e di non rendere pubblico quello sfogo di un momento troppo intriso di dolore privato, ma Buccini era riuscito a recuperare la bozza e l’aveva pubblicata sul «Corriere».

Strano che Di Pietro non volesse piu parlargli. Ora Gomez si stava facendo in quattro per ricucire il rapporto, e ora pero drin, «Nessuna novita». Buccini la fama un po’ da stronzo ce l’aveva sempre avuta, Di Feo stava facendo un apprendistato con il turbo. Ora eccoli li, nel cabinozzo di Sallusti con i loro cellulari che suonavano e trillavano e loro ormai che non rispondevano piu. Ma le telefonate continuavano, e piu loro non rispondevano e piu i trilli sembravano insistere, animarsi, pesare come sensi di colpa.

Se ne accorsero anche Mieli e Sallusti. Nel libro Il duello di Bruno Vespa, tra le fantasticherie di Gianluca, c’e anche un passaggio che prefigura un Di Feo che fuori tempo massimo ha «un problema di coscienza» e spiega a Mieli che «ritiene che tra i colleghi degli altri giornali solo Foschini abbia capito che i giudici abbiano tirato l’affondo finale a Berlusconi». Lo ha «capito». E quindi «chiede a Mieli se puo informarlo». Il direttore risponde di no, ora e tutto chiaro: lo stronzo e Mieli. Invece, nel libro di Buccini del 2021 sul trentennale di Mani pulite Foschini non viene neppure nominato.

Ecco infine la prima pagina, finita, approvata, quella vera: titolo di spalla (a destra del giornale) a sei colonne: Milano, indagato Berlusconi. Cosiddetto «catenaccio» o sottotitolo: «E l’inchiesta sulle tangenti alla Guardia di Finanza». Si parlava di due soli capi d’imputazione perche avevano avuto appunto un foglio solo (del quale Buccini e Di Feo peraltro negarono l’esistenza per anni, nei loro racconti romanzati) e circa la mancanza della terza imputazione, ancora nel 2021, Buccini spieghera che su quella terza notizia «ci abbiamo messo le orecchie ma non gli occhi. Per eccesso di prudenza, sfumiamo». Certo, si.

Buccini si spingera oltre: «Il fatto che proprio in quelle ore Berlusconi non lasci completare ai suoi interlocutori telefonici l’elenco delle accuse, chiudendo la comunicazione con i carabinieri proprio prima che quelli arrivino a citargli Videotime, induce alcuni astuti esegeti a fare due piu due, producendo la straordinaria teoria che sia proprio lui la nostra fonte decisiva, cosi da potersi atteggiare a vittima la mattina dopo. Una tesi ovviamente sostenuta con qualche interesse anche da molti colleghi di altri giornali».

Gli astuti esegeti, a dire il vero, sono i magistrati di Milano. Quella era la tesi della Procura di Milano e lo e ancora oggi. Dira Davigo: «Noi eravamo gli ultimi ad avere interesse che la notizia uscisse in quei tempi e in quei modi, essendo facilmente prevedibile l’uso che si sarebbe fatto di quella sciagurata fuga di notizie. Io resto convinto che la conferma al Corriere l’abbia data qualcuno dell’entourage di Berlusconi».

Chiesero a Borrelli nel 2010: «Davigo e convinto che la conferma dell’invito a comparire il «Corriere della Sera» l’abbia avuta dall’entourage di Berlusconi. E lei?»; Borrelli: «Si, questa e la convinzione che abbiamo tutti. Noi pensiamo che la conferma decisiva al «Corriere della Sera» l’abbiano data o l’indagato o ambienti vicini all’indagato».

Quella sera ormai tarda il dado era comunque tratto: Mieli consegno la prima pagina autentica e raccomando che non fosse mandata ai tg della notte per le rassegne stampa, e di non fare la distribuzione serale nelle edicole di Milano e Roma. Ma dimentico di dirlo ai suoi ragazzi.

Poi tutti alla Libera in via Palermo, li vicino, pizzeria che ai tempi aveva il pregio di chiudere tardissimo e oggi e un ristorante che chiude banalmente a mezzanotte. Mieli fece discorsi dapprima un po’ paranoici: «C’erano dei timbri sulle fotocopie? Perche con i timbri vuol dire che il provvedimento e stato notificato alla presenza di un cancelliere; se invece non ci sono, vuol dire che il documento non e ancora passato in cancelleria»; «Mi pare di no, non mi ricordo». Allora poteva essere un falso, una trappola costruita per fottere il Corriere.

Per rallegrare l’ambiente, Mieli rievoco il caso di Marina Maresca, una cronista dell’«Unita» che nel 1982 aveva pubblicato dei documenti attribuiti al Ministero dell’interno dove si parlava di trattative tra i servizi segreti, le Brigate rosse, il boss della camorra Raffaele Cutolo e dei politici democristiani che volevano liberare l’assessore Ciro Cirillo, sequestrato dalle Br: documenti che poi si rivelarono falsi, tanto che Marina Maresca fu arrestata, licenziata dal giornale e processata. Bene, altri argomenti? Mieli peraltro continuava a dire che non sapeva se avvertire o no l’avvocato Agnelli, l’editore del «Corriere».

Ultima parentesi: ci sara chi sosterra che Mieli stesse solo inscenando una delle sue migliori commedie e che fosse gia ampiamente al corrente del Berlusconi indagato. Da giorni. Leggenda voleva che a informarlo fosse stato il Quirinale: altrimenti, nello sparare una notizia del genere, non si sarebbe accontentato di pezze d’appoggio cosi scarse. Leggenda voleva che Scalfaro, percio, sapesse da ancora prima, ma le leggende sono troppe.

Dirà il leghista Roberto Maroni in data 14 luglio 1998, intervistato dalla Prealpina: « Finora ho taciuto, ma Scalfaro seppe del provvedimento non il 21 novembre... ma prima. Qualche giorno prima. Me lo rivelo lui stesso. Nell’inverno del 1994 io ero di casa sul Colle. Scalfaro mi disse che Borrelli, con il quale aveva un franco rapporto di amicizia, l’aveva messo al corrente dell’iscrizione del premier nel registro degli indagati. Quando? Non mi preciso una data esatta. Tuttavia, sicuramente qualche giorno prima che s’aprisse la conferenza di Napoli». Ed è vero che l’iscrizione nel registro degli indagati avvenne solo il giorno 21: ma il giorno fu senz’altro stabilito prima.

Erano le 2 passate del 22 novembre quando alla Libera di via Palermo il consumato attore Paolo Mieli cambio improvvisamente registro e passo a tutt’altro film. Era il film degli uomini soli prima che scocchi l’ora decisiva. Il film degli eroi stanchi prima dell’ultima carica. Perche noi, vedete, «siamo giornalisti, e il nostro mestiere». Orgoglio. Commozione. Addirittura abbracci.

Mieli lascio il ristorante per primo. Gli altri tre passarono dalla solita edicola di corso Buenos Aires, ma il «Corriere» pero non c’era. Mieli si era dimenticato di dire loro che la prima edizione sarebbe saltata. Nessun altro giornale comunque riportava la notizia, e questo si prestava a una doppia interpretazione. Alle 3, infine, a casa.

Gianluca Di Feo torno nel suo appartamento di via Paolo Sarpi: a Bruno Vespa raccontera che preparo una borsa per il carcere e che dentro mise anche una Bibbia, una raccolta di novelle di Pirandello e delle scatolette di tonno. L’ansiogeno Buccini, invece, aveva gia spedito fuori casa la moglie e la figlioletta, ma di star solo non aveva voglia: divenne un problema di Sallusti, perche Buccini si autoinvito a casa sua in via Uberti, in zona Porta Venezia. Nottata in bianco. Sigarette. Ansia contagiosa. Pessimismo cosmico.

Alle 5.40 Gianni Letta chiamo Berlusconi e gli disse che il «Corriere della Sera» aveva titolato come sappiamo. Le prime conferme giunsero quando Mieli chiamo Sallusti: gli riferi che il Quirinale aveva confermato la notizia. Sempre il Quirinale. Il problema di avvertire Agnelli lo aveva risolto direttamente Berlusconi che aveva chiamato l’avvocato a New York (tre volte) quando li dovevano essere le 2. Pero poi Agnelli aveva chiamato Mieli.

I tre giornalisti del «Corriere» avevano pensato che, in caso di interrogatori, ritenuti certi, Sallusti sarebbe stato sentito per ultimo e che i nastri e la fotocopia li avrebbe tenuti lui. Sallusti chiese alla moglie, Elisabetta Broli, di nascondere tutto in un posto sicuro. Buccini e Di Feo, in effetti, vennero interrogati in mattinata dai carabinieri di via Moscova. Nel pomeriggio tocco invece a Sallusti in veste di testimone, trucchetto che serve per non avere avvocati tra le scatole.

Si appello al segreto professionale come gli altri due, pero a un certo punto fu parcheggiato in una stanza a meditare, una cordiale forma di pressione: e la cosa si fece un po’ lunga. Abbastanza da spaventare l’irrequieto cronico, che decise di chiamare la moglie di Alessandro, perche temeva che potessero perquisirle la casa. Lei rispose e cerco di tranquillizzarlo: disse che stava portando il materiale fuori citta e che si era soltanto fermata un attimo da una parrucchiera vicino a casa, in Porta Venezia.

All’ansiogeno non poteva bastare. In un nanosecondo era gia dalla parrucchiera: si fiondo dentro urlando «Dov’e?, dov’e?», per poi mettersi a frugare nella borsa di Elisabetta in cui trovo ed estrasse una specie di malloppo. Nell’insieme, una scena da tarantolato che spavento a morte la proprietaria del negozio la quale stava quasi per chiamare il 113. Elisabetta cerco di spiegarle che si trattava di un giornalista, che non era un drogato e che nel fagotto non c’era droga, anche se l’invasato non aiutava, perche intanto se n’era andato nel bagno del retrobottega e aveva gettato tutto in un water dopo avergli dato fuoco, compresi i nastri magnetici altamente infiammabili: il water erutto come il Krakatoa.

Renato Pezzini del «Messaggero» telefono a Sallusti, suo amico di vecchia data, e gli disse che era un figlio di puttana: il loro rapporto non si ricuci mai. E la stessa espressione che uso con Di Feo, specificando che in passato aveva pensato che a esserlo fosse solo il suo compare. Insomma la prese bene. Luca Fazzo della «Repubblica» chiamo l’amico Di Feo e gli fece i complimenti «come professionista», ma aggiunse che «come amico sei uno stronzo, i conti li facciamo dopo». Paolo Foschini fu visto molto intristito.

Leggenda vuole – anzi, diversi cronisti lo credono ancora oggi – che Foschini venne poi assunto al «Corriere della Sera» in segno di risarcimento per l’ingiustizia patita. Niente porta a crederlo. Anzitutto, con l’amico Pezzini, passo piu di due anni a rifilare quanti piu dispiaceri professionali possibili alla blasonata concorrenza. Poi si, la cronaca di Milano del «Corriere» aveva bisogno di un nuovo cronista polivalente da assumere: ma Gianluca Di Feo non indico Foschini, indico Luca Fazzo della «Repubblica».

E Fazzo avrebbe anche potuto accettare, ma alla «Repubblica» lo vennero a sapere e gli offrirono un milione di lire in piu e il grado di inviato. Fazzo resto alla «Repubblica». Allora Michele Brambilla del «Corriere», l’ex cronista che all’inizio di Mani pulite aveva affiancato Buccini prima di tirarsi indietro e lasciare il posto proprio all’implume Di Feo, suggeri Paolo Foschini. Il quale ebbe un colloquio con il capo della cronaca milanese, Giangiacomo Schiavi, emiliano come lui. E sara per questo, ma fu assunto con decorrenza dal 1° gennaio 1997. Il direttore era ancora Paolo Mieli. Di Feo, Foschini, se lo ritrovo a fianco. Tutti i giorni.