Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  aprile 08 Venerdì calendario

Intervista a David Leavitt

“L’Italia è il miglior Paese per essere famoso”, confessa divertito David Leavitt in una pausa del suo tour di presentazioni lungo la Penisola. Il sessantenne autore di Pittsburgh – protagonista negli anni 80 della generazione minimalista con libri cult come Ballo di famiglia – è in libreria con una riedizione Sem di un altro suo romanzo assurto a classico, La lingua perduta delle gru. L’autore, sposato con un collega di lettere, rigetta da sempre l’etichetta di letteratura gay e continua a raccontare ipocrisie e reticenze della borghesia progressista (Il decoro, uscito due anni fa, inchioda una coppia di radical chic sotto la presidenza dell’odiato Trump).
Leavitt, i suoi incontri sono affollatissimi. Un’accoglienza davvero calorosa qui in Italia.
Voi italiani siete la mia prima comunità di lettori. Del resto, la patria mi sta stretta, sono sempre più insofferente. Sogno la fuga. Da Milano a Palermo sento una fedeltà che mi commuove.
Intende davvero lasciare gli Usa e trasferirsi altrove?
Non sopporto più di vivere in una Florida governata da uno scriteriato che tanto per dirle l’ultima ha vietato ai docenti delle scuole superiori di affrontare tematiche Lgbt. C’è un clima pesante, di intolleranza diffusa. E poi io mi sento da sempre poco americano.
Parla con toni da esule…
Io sono un inglese nato per sbaglio in America. Adoro l’Europa, i suoi scrittori, i suoi artisti. La democrazia negli Usa è malata e la società ne riflette le storture. Si vive in maniera diversa da Stato a Stato, dentro a una schizofrenia di norme e di valori. Meglio il Belpaese.
Sicuro che l’Italia sia un approdo migliore?
Non penso certo di trovare il paradiso, ma da voi resiste un’idea di società che mi è più congeniale.
Recentemente il nostro Parlamento non è riuscito ad approvare il ddl Zan, una legge per punire la violenza omofoba.
Viviamo tempi assurdi. C’è una destra pericolosa, che vuole restaurare un clima da caccia alle streghe. Strumentalizzano la rabbia di minoranze che fanno solo molto rumore.
Si riferisce ai nostri Salvini e Meloni?
Conosco poco la politica italiana. Sui media americani non c’è quasi mai traccia di notizie da Roma. Mi pare di intuire però che la destra di oggi si comporti allo stesso modo a ogni latitudine. Ci sono da una parte anziani conservatori e dall’altra giovani ambiziosi, che cercano nelle battaglie razziste e omofobe il loro posto al sole.
Gli intellettuali possono fare qualcosa per cambiare questa deriva?
Sono parecchio disilluso. Per il futuro forse, ma per il momento la letteratura è di fatto irrilevante. Quando parlano di politica gli scrittori non sono ascoltati, non sono in grado di plagiare le coscienze.
Eppure proprio il suo La lingua perduta delle gru, pur non essendo un romanzo militante, negli anni 80 contribuì a propiziare tanti coming out, a cambiare la percezione dell’omosessuale nella società.
Sono consapevole e grato che i miei libri abbiano movimentato tante coscienze ma io parlo del potere, delle sue dinamiche. In questo senso gli intellettuali possono fare ben poco.
Celebriamo in queste settimane il centenario di Pasolini. Proprio tramontato l’impegno?
L’impegno resta ed è sacrosanto, ma oggi la voce dello scrittore engagé è un ronzio dentro il fracasso della rete. Comunque un bene che Pasolini venga riscoperto e studiato. Per me è stato un genio. Pensi che di recente mio marito è rimasto letteralmente sedotto da Comizi d’amore.
Siamo nell’epoca del gender fluid. Meglio o peggio rispetto al passato?
Decisamente meglio. Trent’anni fa eravamo gay tormentati, un po’ paranoici, prigionieri di noi stessi. Insegnando all’università, mi imbatto in giovani sereni, rilassati, con un’apertura mentale che strappa ammirazione. Ero scettico dapprincipio sulla parola queer, oggi mi rendo conto che contenendo tutte le identità possibili ci riconcilia con la realtà.
Siamo anche nell’epoca del politicamente corretto, della cancel culture: non pensa che siamo a punte di fanatismo pericolose, che la libertà d’opinione possa essere a rischio?
Tutto questo è nato per colpa di Trump. L’indignazione nei confronti di questa testa di cazzo non è stata canalizzata al meglio dalla sinistra. Era più una premura tra noi liberal che una campagna contro il nemico e alla fine, sbagliando, ci siamo concentrati sulla forma anziché sulla sostanza.