ItaliaOggi, 8 aprile 2022
In Germania l’umorismo resta una cosa seria
È stato fondato il Zentralrat für deutschen Humor, il consiglio centrale per l’umorismo tedesco, a cura della Lach-Gesellschaft, la società per la risata. Il primo simposio si terrà dal 25 al 27 novembre, nell’aula magna dell’Università di Monaco. Proprio di questi tempi, tra guerra e pandemia, c’è bisogno di umorismo. La notizia è data in poche righe, nella sezione cultura, dalla seria Frankfurter Allgemeine Zeitung.
Capisco che questa notizia faccia già ridere, o sorridere, gli italiani, convinti, come gli altri europei, che i tedeschi non siano capaci di humor. A che serve un ente per l’umorismo e una società per imparare a ridere? I tedeschi sono troppo seri, e regolano anche il Carnevale, che sarebbe il tempo della follia liberatrice. In Germania il Carnevale comincia puntuale l’11 novembre, undicesimo mese, alle ore 11 e 11 minuti.
Al simposio partecipano scrittori, sceneggiatori, comici della tv, attori, registi, tutti quelli che per mestiere dovrebbero sapere come intrattenere il pubblico divertendolo. In altri tempi sarei andato per intervistare i partecipanti. Era il tema per un reportage, quando collaboravo all’Europeo o a Epoca, settimanali scomparsi, che mi avrebbero lasciato libero di scrivere una decina di cartelle. I quotidiani non avevano, e non hanno, lo spazio necessario.
Non è vero che lo humor sia una prerogativa degli inglesi che, in realtà, devono la loro fama in gran parte agli irlandesi. Una volta Peppino De Filippo, che soffriva come si sa a causa del fratello Eduardo, mi disse: «Tutti sono capaci di far piangere il pubblico, ma è difficile strappare una risata agli spettatori». L’umorismo cambia di luogo in luogo.
Il 2 luglio del 2003, a Strasburgo, si scontrarono Silvio Berlusconi e Martin Schulz, a causa di un malinteso senso dell’umorismo nazionale. Martin Schulz prese in giro i politici italiani storpiando i loro nomi, alla Ridolini. Politicamente molto scorretto. Berlusconi gli avrebbe dovuto proporre una parte in uno dei film comici prodotti da Mediaset, invece gli offrì il ruolo di kapò, un sorvegliante di Lager.
Sul nazismo i tedeschi non osavano ridere, finché Benigni li commosse e gli strappò un sorriso con La vita è bella. In quei giorni. sul tema umorismo nazionale, intervistai Klaus Wagenbach, l’editore che amava la nostra letteratura (scomparso lo scorso dicembre a 91 anni). Mi disse che i tedeschi non hanno senso dell’umorismo, e neanche gli italiani, tranne i toscani e, bontà sua, i siciliani. Pirandello scrisse un saggio sull’umorismo (1908) ma le sue commedie sono anche tragedie, come i lavori di Eduardo, che in realtà sono crudeli.
Si equivoca tra satira, ironia, sarcasmo. Si sostiene con ragione, che gli umoristi devono essere liberi, vietata ogni censura. Dipende: se dico che Albert Einstein era uno sciocco perché non sapeva nuotare e andava in barca a vela, potrebbe essere una battuta. Se dico che era un ebreo presuntuoso, è solo un insulto.
Gli umoristi del settimanale francese Charlie Hebdo hanno pagato con la vita le vignette su Maometto. I musulmani non tollerano che si rida di Allah e del suo profeta.Ma la vignetta sulle vittime del terremoto in Italia, viste come il ripieno di una lasagna sanguinante, era un insulto razzista. Italiani tutti macaronì.
A volte, la lingua crea equivoci. I tedeschi si offesero quando un giornale sportivo scrisse che Steffi Graf, era di una bravura bestiale. Non li ho mai convinti che «bestia», in quel contesto, era un complimento. E noi siamo sempre risentiti per la copertina dello Spiegel, quella del revolver sugli spaghetti fumanti, che risale al 1977.
I tedeschi prediligono il Galgenhumor, letteralmente l’umorismo della forca, o sulla forca. Un pregiudizio confermato? Ma è un malinteso: non si ride di chi viene impiccato, è l’umorismo, l’autoironia, di chi sta per essere giustiziato. Nella poesia Mit schwarzen Segeln, con vele nere, tradotta malamente da Carducci, Henrich Heine si chiede: dove mai sarò sepolto, sotto le palme nel deserto…e enumera altre località esotiche, ma nel 1844 era malato, e sapeva che sarebbe morto a Parigi, dove è sepolto nel cimitero di Montmartre. Rideva, amaramente e poeticamente, di se stesso.