Linkiesta, 8 aprile 2022
L’estate del 1992 e l’album perfetto di Jovanotti
Se io potessi, sarei sempre in vacanza. Se io fossi capace, scriverei Il cielo in una stanza. Era la primavera del 1992: la prima primavera in cui abitavo da sola, la prima primavera in cui non sapevo cos’avrei fatto da grande, la prima primavera in cui compravo quei Dolce e Gabbana delle sfilate senza il minimo dubbio che giù dalle passerelle sarei sembrata un mignottone.
Quando uscì, nell’aprile del 1992, non sapevamo che quel disco parlasse di noi (una cosa che capisci solo invecchiando è che le cose che parlano di te non lo capisci quasi mai al presente, che parlano di te). Adesso, trent’anni dopo, possiamo far pace col nostro essere stati ragazzi fortunati. Quelli che potevano essere mediocri. Slacker. Giovani carini e disoccupati. Senza inferni da cui salvarsi (la guerra, il terrorismo, quasi neanche l’eroina: a Bologna le pere se le facevano solo i fuori sede, e mica frequentavano gli stessi posti di noi che facevamo sempre vacanza).
Ma, se devo dirla tutta, qui non è il paradiso: all’inferno delle verità io mento col sorriso.
Lorenzo 1992 è il primo e l’ultimo disco di Lorenzo Jovanotti. Il primo coi temi importanti o presunti tali (l’Aids! Siddharta! L’Europa unita! L’immagine stereotipata della donna! Il Vaticano! La Dc! Le raccomandazioni! Le tette rifatte! La satira della religione televisiva coi campionamenti degli spot! Il razzismo! «Oh ragazzi, lo so che è strano parlare di queste cose quando si balla»: aveva venticinque minuscoli anni e già faceva l’opera e la critica dell’opera, l’emittente e i riceventi, il performer e il pubblico).
L’ultimo non bulimico: dodici canzoni, non sono le sei di Via Paolo Fabbri 43 ma stanno comunque sotto i cinquanta minuti, cinquanta minuti che più o meno ora è la durata d’un remix d’un qualunque pezzo nuovo. Nel bilancio delle entrate e delle uscite, il Cherubini venticinquenne aveva in sintesi quel che il cinquantacinquenne ha in portamento.
Il primo e l’ultimo disco, dicevo, in cui illude la critica d’essere un analfabeta che, se scrive «non c’è niente che ho bisogno», non lo scrive per la metrica ma perché non ha concluso con profitto le elementari. Il primo e l’ultimo disco in cui non chiede il permesso per prendersi un ruolo che la società civile non ha intenzione di regalargli, e rifiuta quello di cantautore che passeranno i successivi trent’anni a offrirgli: «Questo è il nostro quinto album, non sono un cantante: faccio il rap».
«Chi crede ancora che il rap in Italia sia rappresentato da Jovanotti è senza dubbio male informato», aveva scritto una settimana prima dell’uscita di Lorenzo 1992 il sempre lungimirante critico di Repubblica, procedendo poi a elencare decine di rilevantissimi nomi che nei decenni successivi non avrebbero lasciato una traccia neanche minuscola nella cultura popolare italiana (come molti, oggi quel critico porterebbe volentieri l’acqua con le orecchie al Lorenzo venerato maestro: del senno di poi son piene le critiche culturali).
Oggi Lorenzo 1992 non verrebbe scritto, e non perché a cinquant’anni non si scrivono le cose che si scrivevano a venti (se non si è completamente imbecilli). Non verrebbe scritto perché non puoi più scrivere una canzone su un virus mortale che si trasmette scopando (cioè l’unica cosa che ti interessi a vent’anni) in cui ci siano versi efficaci come «E la data del vaccino e della sua grande scoperta è ancora lontana, sia per chi va con la santa che per chi va con la puttana»: oggi la prima cosa che pensi è che poi ti linciano su Twitter, e chi te lo fa fare. (C’è persino un verso sulle italiane che non somigliano a Moana perché il sesso non lo fanno per soldi: pensa oggi).
Il mio principale ricordo dell’estate 1992, credo d’averlo già raccontato un milione di volte (sono entrata nell’età delle rievocazioni già da un bel pezzo), siamo noi ragazze in bikini sul ponte della barca, e il Lorenzo 1992 in diffusione è arrivato a «a volte penso, vorrei, lo sai, esser stato il primo, ma poi ci penso e alla fine è lo stesso perché, perché tanto non l’hai mai fatto come l’hai fatto con me», e noi squarciagoliamo commosse chiaramente chiedendoci perché a noi mai nessuno dica queste perfezioni romantiche, e il mio flirt di quell’anno mastica cubetti di ghiaccio borbottando «ammazza che paraculo questo».
Il 1992 è lontanissimo e presentissimo, e non solo perché a me non entrano più quei bikini, ma perché «questa falsa divisione tra puttane e spose» è un tema che il femminismo di Instagram ancora non è riuscito a risolvere (nota a margine: il 1992 sarà anche l’anno del tour Jovanotti/Carboni, praticamente è come quell’anno in cui in America nacquero sia Jack Nicholson sia Warren Beatty, e non ce ne fu più per nessuno).
È lontanissimo perché Sanremo faceva sedici milioni di spettatori chiudendo la serata alle undici. È presentissimo perché a un certo punto di quel disco Lorenzo cantava «Andreotti che ogni frase ti ci mette una battuta con il pubblico che applaude anche se non l’ha capita»: è praticamente oggi, solo che Andreotti questa pantomima da talk show la faceva meglio degli emuli falliti di questo secolo.
Tempo: quando stai bene lui va via come un lampo, quando t’annoi un attimo sembra eterno. Oppure: un giorno sembra l’ultimo, un altro è da impazzire (il testo su Google dice «imbastire», ma i miei vent’anni squarciagolavano «impazzire», e se i vent’anni non hanno ragione sulle canzonette, non so proprio su cosa).