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 2022  aprile 07 Giovedì calendario

Chi paga i costi dell’inflazione

Il Documento di Economia e Finanza (Def) è il documento con cui il governo aggiorna le previsioni macroeconomiche e gli obiettivi di finanza pubblica per il medio termine. Spesso è stato il documento in cui obiettivi di risanamento dei conti pubblici venivano ridimensionati anche in presenza di un miglioramento delle condizioni economiche.
Il secondo Def del governo Draghi porta invece qualcosa di nuovo: inevitabilmente il quadro macroeconomico peggiora, almeno nel breve periodo, ma il quadro di finanza pubblica resta immutato, anzi, in certi aspetti migliora. In parte questo è dovuto alla prudenza con cui gli obiettivi erano stati fissati in passato, in parte ha a che fare con una nostra vecchia conoscenza, di recente riapparsa: l’inflazione.
Cominciamo dalla crescita.
Il tasso di crescita del Pil reale è stato ridotto dal 4,7 per cento previsto nella legge di bilancio, al 3,1 per cento a causa dell’aumento del prezzo delle materie prime (una maggiore tassa che dobbiamo pagare ai produttori di materie prime) e dell’incertezza causata dalla guerra in Ucraina. La crescita prevista si riduce anche per il 2023, mentre risulta sostanzialmente invariata nel 2024. Cosa comporta una crescita del 3,1 per cento? Anche con crescita zero durante l’anno, il Pil annuo sarebbe stato più alto di quello del 2021 del 2,3 per cento (era il cosiddetto “acquisito"). Una crescita del 3,1 per cento significa quindi una crescita nel corso dell’anno. E visto che il Def indica che nel primo trimestre la crescita sarà negativa, dal secondo trimestre in poi il governo prevede un ripresa relativamente rapida. È un quadro realistico? Sì, in uno scenario in cui la guerra in Ucraina termina nel giro di qualche settimana o, comunque, non porta a un’escalation militare o economica, la fiducia si consolida e, magari, i prezzi delle materie prime tornano a livelli pre-guerra. Le cose andrebbero però diversamente nel caso di un’escalation del conflitto, compresa una decisione europea (peraltro comprensibile in termini di politica estera) di estendere l’embargo al gas russi.
L’inflazione al consumo per il 2022 è rivista dall’1,6 per cento (una previsione che appariva, a dire il vero, ottimistica anche sei mesi fa) al 5,8 per cento. Poi scende gradualmente, anche se resta più alta del previsto anche per il 2023. Attenzione però a una cosa: il deflatore del Pil, cioè il prezzo di beni e servizi prodotti all’interno aumenta molto meno (3 per cento), visto che, in buona parte, l’inflazione al consumo è importata. Questo attenua (anche se non elimina; vedi sotto) i vantaggi che l’inflazione porta ai conti pubblici, in particolare in termini di rapporto tra debito pubblico e Pil: il Pil dipende infatti dal proprio deflatore e la sua minore crescita comporta una minore erosione da parte dell’inflazione del rapporto tra debito e Pil.
Veniamo ai conti pubblici. Il 2021 finisce molto meglio del previsto. L’aumento delle entrate, dovuto soprattutto alla maggiore inflazione, e una prudenza nell’esecuzione della spesa ci fa finire il 2021 con un deficit del 7,2 per cento contro il 9,4 per cento previsto a ottobre. Anche il rapporto di debito è più basso (150,8 contro il 153,5 per cento). Questa bonanza di entrate si estende al 2022 e rende possibile (insieme alla tassazione straordinaria degli extra profitti delle imprese energetiche) mantenere lo stesso obiettivo di deficit per il 2022 (5.6 per cento del Pil). Quindi niente scostamento di bilancio nonostante: (i) la minore crescita reale: (ii) i 15 miliardi di spesa addizionale già stanziati dal governo per contenere il costo delle bollette per famiglie e imprese, tagliare le accise su benzina e gasolio in aprile e aumentare alcune spese ritenute priorie (per esempio il miliardo per l’automotive); e (iii) dulcis in fundo, l’annuncio di un imminente decreto legge di aumentare, per un totale di 5 miliardi, la spesa per contenere il prezzo dei carburanti, realizzare le opere pubbliche previste, assistere i profughi ucraini e alleviare il costo del conflitto sulle aziende italiane. Miracoli dell’inflazione. Ma c’è un prezzo da pagare che non si più dimenticare. Il bilancio dello stato stanzia risorse per la spesa in termini di euro. Se i prezzi aumentano il potere d’acquisto di quelle risorse si riduce, a meno che queste non siano incrementate con stanziamenti aggiuntivi, come si intende fare per (alcune?) opere pubbliche e per i provvedimenti per contenere il costo dell’energia. Il che significa che le spese per tutte le altre voci di bilancio, per la sanità, la pubblica istruzione, la giustizia, la difesa, eccetera risultano tagliate in termini reali. In buona parte questo si traduce in un taglio degli stipendi dei dipendenti pubblici, in parte in minori risorse per acquisti di beni e servizi, in parte in minori trasferimenti a famiglie e imprese (per esempio, le risorse stanziate per l’assegno unico per i figli vengono erose corrispondentemente). Si salvano le pensioni visto il meccanismo di perequazione, ma sono in parte dato il ritardo con cui le pensioni vengono adeguate alla maggiore inflazione. L’inflazione quindi sta aiutando il finanziamento di certe spese, ma qualcuno paga. —