la Repubblica, 7 aprile 2022
Il Muggenheim ovvero l’autobiografia per oggetti di Giampiero Mughini
La stazione di partenza per il Muggenheim è Bologna 1977, che esiste e non esiste, come il binario 9¾ del realismo magico di Harry Potter. Se infatti è vero che, ad ogni stagione della politica, c‘è una città d’Italia che diventa l’Italia, è davvero “inaudito”, ha ragione Mughini, che solo nella sua casa-museo venga riconosciuto alla Bologna 1977 di avere acchiappato il mondo con i dischi degli Skiantos e i libri di Tondelli, la demenzomania di Freak Antoni, le lezioni di Gianni Celati, Radio Alice, il rock di strada e tutta «l’allegra ragazzaglia» che urgeva e schiamazzava e moriva «in un fazzoletto di strade e viottoli» respirando lo spirito del tempo come Harry Potter respirava il corno di bicorno in polvere e il tritato di unghie di cavallo.
Perciò commuove la Bologna 1977 catalogata come una Patria: il fumetto e Frigidaire, il Roxy Bar di Vasco, Andrea Pazienza, e Mamma, dammi la benza, eroina e molotov, e il Dams (1971) di Umberto Eco, non ancora venerato maestro, ma non più professore di Goliardia: «Hegel Giorgio Federico / è un burlon che non vi dico. / Ei decide là per là / di abolir l’identità / quindi fonda i presupposti / di una scienza degli opposti...».
Ci si appassiona dunque nel Muggenheim raccontato come un viaggio d’avventure. E con lo stupore di Simplicius Simplicissimus si vola a cavallo di una scopa sopra la grand’Italia del design, che non esiste più, di cui la maggior parte degli italiani sa ben poco, benché abbia dato forma al secondo Novecento, almeno. In questa vita ripensata non ci sono le penne Bic e le lame Gillette, che furono «il progettare per chi va in tram», ma ci sono soprattutto i pezzi unici, i prototipi, vale a dire il design che nega se stesso, la sua propria natura di artigianato di massa che voleva imbellettare le macchine seguendo la profezia (1925) del solito Le Corbusier: «Al vuoto del secolo della macchina bisogna reagire con l’effusione ineffabile di un ambiente che culli e inebri con dolcezza». E chissà cosa direbbe Le Corbusier se il Padreterno lo facesse rinascere, ma solo per una giornata, e da passare non nei Guggenheim, ma nel Muggenheim.
E però, non spaventatevi, questo non è un libro in “architettese” con «la progettazione polisemica degli elementi nomadici» e «la forma implicata, implicante e mai applicata», vale dire le parole sconnesse sul famolo strano come nobiltà dell’ellissi. Insomma, non è uno dei mille libri, tutti uguali, dedicati al design, dove, già alle prime pagine, la sola cosa che ti interessa è uscirne, come spesso capita negli androni dei palazzi moderni.
Mughini, al contrario, con quella stessa avvincente chiarezza che si è imposta come uno stile, racconta il posacenere (di Munari) o il tagliacarte (di Mari) come il Marlow di Conrad risale il fiume Congo. E solo qui si capisce perché quel gioco per bambini che si chiama “puzzle dei 16 animali” ha influenzato la psicologia dell’età evolutiva più dei libri di Piaget.
Anche la centralina di comando, la scrivania (di Ico Parisi), e gli spazi delle esigenze personali e dell’ozio, come la poltrona (di Pesce, e chi se no?) diventano romanzo sentimentale, respiro storico e miniatura. Passeggiando tra prime edizioni e manoscritti, manifesti che arredarono epoche e fotografie, copertine e mobili- capolavoro, che non sono esposti ma salvati e accuditi, capita pure di incontrare, come passanti, Carlo Muscetta e Silvio Berlusconi, i fratelli Franco e Nanni Moretti, Paolo Mieli, Francesco De Gregori e Dagospia. E si vola da Parigi a Vietri, tra piastrelle e forbici da sarto: «Un paio di forbici da sarto sono solo un paio di forbici da sarto. E cosa volete che siano»?
Quando, però, il vaso di porcellana della collezione Memphis pare a Mughini una scultura, è lo stesso Sottsass a dirgli che si sbaglia, ché ha un buco e ci si devono mettere i fiori. Ecco perché (non) fa ridere la battutaccia ripresa anche da Crozza: «Se si capisce, è una sedia. Se non si capisce, è design». Al contrario, il design sottrae la sedia alla corruzione come mostra questa collezione che mette ordine nel gran caos dei ricordi di un forever young ottantenne, uno degli ultimi intellettuali italiani, il più solitario e il più popolare.
Neppure ci provo a elencare tutti i protagonisti del Muggenheim che a volte, durante una cena – «non più di sei» -, rispondendo allo speciale calore di Michela e Giampiero, lasciano muri e scaffali e entrano nella vita con un fruscio. Ed è un andirivieni perché non sono più oggetti ma gesti e movimenti, proprio come sognava lo scultore Giacometti che voleva creare un uomo di pietra, ma senza pietrificare l’uomo.