la Repubblica, 7 aprile 2022
A dieci anni dalla morte di Miriam Mafai
Miriam Mafai aveva la dote non comune dell’allegria. La sua risata è rimasta nel ricordo di molti di noi, limpida, squillante, un’esplosione di vitalità che ti trascinava dentro un mondo più personale dove non era contemplata la noia. Solo quando parlava di guerra il suo volto poteva rabbuiarsi all’improvviso, come se quel «trionfo del capriccio e del caso» si portasse dietro ancora un carico di dolore, ingiustizia, miseria. Della sua voce oggi, sotto il cielo livido di Bucha e di Mariupol, avremmo ancora più bisogno. E arriva come un regalo inaspettato, a dieci anni esatti dalla sua scomparsa (il 9 aprile del 2012), la riedizione di Pane nero. Donne e vita quotidiana nella Seconda guerra mondiale (Bur Rizzoli, con una prefazione di Annalisa Cuzzocrea).
Pane nero racconta molto della guerra, e di chi l’ha scritto. Per la prima volta Miriam la ripercorreva attraverso il vissuto di mondine, operaie, dattilografe, impiegate di concetto, tramviere, postine, signore dei quartieri alti e aristocratiche, tutte donne che indipendentemente dalla geografia sociale e culturale erano state costrette a uscire di casa, a cercare un lavoro, a prendere decisioni difficili, qualcuna a imbracciare un fucile, e quindi ad acquisire coscienza di sé e delle proprie capacità.
Non c’è distinzione tra Silvia figlia della borghesia ebrea genovese e Zita mondina di Cavriago dalla schiena forte, tra Lucia che viene assunta come autista dei tram a Milano, Carla alle poste, Adriana alla Federconsorzi e la ragazza emiliana che chiede di essere reclutata nell’esercito: per tutte la guerra arriva come una potente «trasgressione» che ridisegna il ruolo di «mogli e madri esemplari» – docili, passive, rassegnate – imposto dal fascismo e dalla Chiesa.
Per Anna Maria e Agnese, due amiche romane con casa ai Parioli, fu la scintilla di una maturazione civile che le condusse dall’opera pia svolta a Tor Marancio alla più consapevole militanza clandestina contro i soldati di Hitler. In quasi tutte le testimonianze, a colpire l’autrice era quel sospiro tra le pieghe del discorso, «però è stato bello», che strideva con la ferocia d’un conflitto che aveva falcidiato moltissimi civili, logorato uomini e donne nella fame e nella povertà, nel terrore dei bombardamenti, nel disagio degli sfollamenti diseguali, chi in taxi e chi a piedi calzati male, con quella scia di paura che più d’una generazione di italiani s’è portata dietro per svariati decenni, perché la guerra non si cancella, tutto archivia e conserva.
«Eppure è stato bello», si lasciavano sfuggire le donne, per la prima volta divenute padrone di sé stesse. Il «pane nero» a cui allude il bel titolo del volume è il simbolo di una quotidianità travolta dalle bombe, la farina grigia al posto di quella bianca, il boccone duro che rende amara la bocca, la minestra di piselli invece della carne, e le cipolle in umido a sostituire in padella l’unto di olio e burro ormai introvabili. E sono le donne – sempre solo le donne – a procacciare il cibo, a scambiare pettinini preziosi con litri di latte, a ingegnarsi in ogni modo per ripristinare almeno a tavola il ritmo della vita.
Miriam Mafai fa vedere e sentire la guerra attraverso una scrittura asciutta, antiretorica, allergica agli eccessi sentimentali ma ricca di dettagli minuti capaci di alleggerire le scene più cupe. E nel suo stile assai poco sussiegoso riesce a unire la freschezza di un reportage giornalistico con il rigore di una ricostruzione storica sapiente, nutrita da documenti, testimonianze orali, indagini statistiche.
Non le piaceva definirsi una storica, anche in un’epoca in cui già molti suoi colleghi non esitavano a fregiarsi del titolo, ma fu tra le prime a raccontare la guerra dal punto di vista delle donne. Uscito nel 1987, Pane nero segnò un importante passo in avanti nella ricerca storica al femminile. E nell’affresco corale – altra fondamentale caratteristica di Miriam Mafai – colpiva l’assenza di pregiudizi: l’alta società con i suoi rituali mondani, le volpi argentate di Claretta Petacci o gli abiti della Biki con la coda ricamata, era inclusa nella narrazione insieme a un mondo culturalmente assai più vicino all’autrice, quello d’una figlia della borghesia intellettuale che aveva scelto la Resistenza, il Pci, e una vita dalla parte dei diritti. Non aveva dogmi, Miriam. E anche i versi di Montale scelti come esergo del suo romanzo di guerra ne rispecchiavano la profonda laicità: «La storia non è poi la devastante ruspa che si dice. Lascia sottopassaggi, cripte, buche e nascondigli».
A Miriam Mafai piaceva infilarsi negli anfratti della storia senza usare mai l’io, ma sempre il noi, grande lezione d’una generazione che pensava e viveva in modo collettivo, non in chiave di affermazione individuale. Tra le donne che in Pane nero non vengono messe in primo piano c’è proprio lei, una ragazzina ebrea che la guerra – e prima ancora le durezze della dittatura fascista – l’aveva patita sulla pelle, nata nel 1926 da due artisti geniali e imprevedibili come Mario Mafai e Antonietta Raphaël. Della madre conservava a casa le sculture consacrate alla maternità, pur ritenendosi lei stessa – sbagliando – una genitrice distratta e più attenta al lavoro che alla famiglia. Smentita ripetutamente dai figli Sara e Luciano Scalia, che la ricorderanno il 9 aprile alla cerimonia di intestazione d’un viale di Villa Pamphili vicino alla sua abitazione, Miriam ha esercitato anche fuori di casa un maternage inconsapevole, spostando in redazione i confini del ruolo femminile.
Presente a Repubblica fin dalla fondazione, amata da Eugenio Scalfari perché «riformista e dunque rivoluzionaria», fu la prima donna a firmare editoriali politici sul quotidiano di piazza Indipendenza, e tra le prime in Italia. E le audiocassette con le riunioni degli albori riportano la sua come unica voce femminile del dibattito, dopo l’orazione del direttore: precisa, affilata, non esitante nella critica. Anche nel mestiere di giornalista, seppe anticipare temi non ancora avvistati all’orizzonte come i diritti civili accanto a quelli sociali, le trasformazioni nel lavoro, la globalizzazione della catena produttiva. Brusca e affettuosissima, è rimasto memorabile – nel bel mezzo di un dibattito sul comunismo – il suo «Basta ragazzi, mi avete stufato» rivolto, lei ottuagenaria, ai suoi coetanei Reichlin, Pirani e Napolitano, quest’ultimo prossimo allo scranno più alto del Quirinale.
Miriam è rimasta una ragazza fino all’ultimo giorno quando a 86 anni, minata da un tumore ma ancora padrona di sé stessa, scelse di andarsene nel sonno. Una ragazza che continua a parlarci – a parlarci di guerra, di donne e anche di vita – in un tempo che non è più di pace.