Corriere della Sera, 7 aprile 2022
Torna il premio Nonnino. Saga di una dinastia della grappa
«Alo? La siora Amado? La mojér del sior Jorge Amado? El scritór brasiliàn? Me ciamo Giannola Nonino, distillo snapa e telefono dall’Italia...». Non ci crederete, ma il primo contatto col celeberrimo scrittore di Bahia avvenne esattamente così. Gli amici sapienti devoti a lei, al marito, alle figlie e alla distilleria avevano buttato lì, come l’uomo giusto cui dare il primo premio letterario internazionale nato nella scia del friulano «Risit d’aur» (tralcio d’oro) intitolato alla civiltà contadina, l’autore di Gabriella, garofano e cannella, Teresa Batista stanca di guerra e altri romanzi del realismo magico brasileiro sospirando solo «peccato che non verrà mai fino a Percoto».
Davanti alle insistenze di quella che Gianni Brera chiamava Nostra Signora della Grappa («Sento che se vivessimo nel Settecento o ancora nell’Ottocento le avrei dedicato odi e sonettesse con enfasi inconcussa») gli amici della Garzanti però si arresero: ecco il telefono. Detto fatto, racconta la santa patrona del monovitigno, pensò: «In che lingua le parlo? Mi dico: il brasiliano dev’essere, a orecchio, una via di mezzo tra lo spagnolo e il veneto. Mi decido. Chiamo, risponde una donna e attacco come dicevo: “Alo? La siora Amado? La mojér del sior Jorge?”. E vado avanti a parlar finché domando: la me capisse? La fa: “Son meza veneta anca mi”. Miracolo miracoloso! E mi spiega che si chiama Zelia Gattai, che i suoi erano da Pieve di Cadore e che sì, sarebbe venuta a Percoto sicuramente».
Da allora, ridono Cristina, Antonella e Elisabetta, le figlie che ormai hanno preso in mano la distilleria, «la mamma è arrivata con la sua faccia tosta a parlare anche in bulgaro ai bulgari: se vuole una cosa si fa capire dappertutto». Più che una faccia di tolla, rivendica lei allegra, «ho una faccia “melonaria”, tutta tonda: me lo diceva ridendo Benito, mio marito, quando ci siamo conosciuti giù al ruscello, dove ai tempi ci ritrovavamo da ragazzi». Faccia solare. Aperta. Capace di conquistare tutti. Dalla bracciante latino-americana al filosofo ebraico mitteleuropeo. A partire da quando, nel ’77, decise col Benito («gran persona, una vita a baruffare ma sempre insieme sulle cose che contano: la grappa e la famiglia, che po’ i xe ’a stessa roba», ammicca) di dar vita appunto al premio letterario suggerito dal critico enogastronomico Luigi Veronelli, autore anni prima di una rubrica su «Panorama» che aveva esaltato («Picolit, Picolit, che snappa!») la prima grappa di monovitigno: «Ho chiuso gli occhi e ho lasciato scivolare qualche goccia nella bocca. Allora l’ho scaldata, ancora a lungo, tra lingua e palato: la grappa si è sparsa e mi ha invaso».
La prima giuria si riunì all’osteria di Percoto. Con Veronelli c’erano Gianni Brera, il teologo, poeta e promotore di una svolta civile e religiosa Padre David Maria Turoldo, il critico cinematografico Morando Morandini, lo storico capo della Cultura del «Corriere» Giulio Nascimbeni (che mise a punto lo statuto) e il presidente scelto dal gruppetto, Mario Soldati. Uno che Giannola degli Spiriti (copyright Gianni Mura) aveva visto solo in tivù ma aveva presto domato a dispetto delle prime («Chi è? Come? Ma dov’è ’sta Percoto? Ma cosa vengo a fare?») reazioni brusche. Non è tipo, lei, da darsi arie salottiere: «Mia nonna era maestra, mia mamma maestra e mi son piena de bona volontà, ma no so gnente. Non leggo niente». Figuratevi se poteva conoscere fini letterati svedesi o medievisti estoni. Per questo, spiega, «la famiglia Nonino non ha mai voluto entrare in giuria e aver rapporti con gli editori. All’inizio non ci filava nessuno. Poi cominciarono a arrivare trecento libri alla volta. Un incubo. Abbiamo spiegato che al “Nonino” non ci si candida. Si viene candidati. Da altri».
Il naso però, in famiglia, non ce l’han solo per la grappa. Più ancora, se possibile, ce l’hanno nell’annusare i giurati giusti. Aggregando man mano vari vincitori. Da Ermanno Olmi che trionfò con L’albero degli zoccoli a Mario Rigoni Stern per Uomini, Boschi e Api, dal filosofo Edgar Morin al regista Peter Brook o allo stesso Jorge Amado. E via via altri ancora, da Claudio Abbado a Claudio Magris...
Fatto è che da quando si sono inventati quel piccolo grande premio estraneo ai padroni dell’editoria vincente, ai prìncipi dei salotti e ai mammasantissima culturali, al Nonino hanno già anticipato sei premi Nobel. Sei. E sarebbero perfino di più se a suo tempo non fosse saltato (peccato) il riconoscimento a Dario Fo proposto dallo stesso Brera e se Amado non fosse rimasto sempre un candidato amato da tutti, ma meno in Svezia.
La prima a compiere il tragitto Percoto-Stoccolma dove avrebbe vinto il Nobel (per la Pace) del ’92 fu la contadina guatemalteca Rigoberta Menchú. Il secondo lo scrittore caraibico ma figlio di immigrati indiani Vidiadhar Naipaul. Il terzo il poeta svedese Tomas Tranströmer: «Mi imbatto nelle orme di un cerbiatto./ Linguaggio non parole». Il quarto il narratore cinese Mo Yan, autore di Sorgo rosso nel quale, come avrebbe ricordato, sua nonna produceva un distillato di sorgo che avrebbe spinto tutti a intonare a squarciagola una canzone che chiudeva così: «Se berrai il nostro distillato/ non ti inginocchierai/ neanche davanti all’imperatore». Il quinto il fisico teorico britannico Peter Higgs. L’ultimo il nostro Giorgio Parisi. Che ha ricevuto l’anno scorso la medaglia, la pergamena e nove milioni di corone svedesi dopo avere vinto il Nonino 2005.
Non è che in famiglia ne sapessero molto, quando il suo nome spuntò fuori. Ma quell’idea dei sistemi complessi spiegata con l’ordine nel disordine degli storni incantò tutti. Incanto raddoppiato quando il fisico spuntò la prima volta tra gli stucchi dell’Hotel Astoria di Udine: «Un’apparizione lunare. Era sceso direttamente dalla montagna. Vestito, dal berretto agli scarponi, da sciatore. Era irresistibile. Quando poi si abbandonò al primo ballo della sua vita... Il giorno dopo essere tornato a Roma andò iscriversi a un corso di ballo. Da allora praticamente è venuto tutti gli anni».
Un po’ tutti, in realtà, sono tornati a Percoto ogni anno. A partire dai quattro «zii» che spesso ospitavano le tre ragazze di Benito e Giannola a Parigi. «Zio Claude» (Lévi-Strauss), che «aveva un quadro di Edward Calvert, uno stupendo vaso di Émile Gallé, un Buddha immenso» e «parlava della teoria del cotto e del crudo». «Zio Jorge» (Amado) che «raccontava storie fantastiche di Bahia e dei suoi viaggi». «Zio Peter» Brook sul cui teatro Antonella si laureò in Lingue. «Zio Leonardo» Sciascia, così legato alla famiglia che a Percoto scrisse il suo ultimo romanzo Il cavaliere e la morte (da brividi la dedica: «A Giannola e Benito, alla cui serena ospitalità si deve questo non sereno racconto») prima di andarsene.
Una comunità sparsa tra New York e Pechino ma unita sempre da lettere, telefonate e quell’incontro annuale. «Un inverno, prima del premio, venne giù una nevicata epocale. Italia paralizzata. Pareva impossibile ritrovarci. Finché Gianni Brera trovò miracolosamente un pullman con le catene. Un viaggio interminabile, ma arrivarono». Un giorno o l’altro, dopo i rinvii nel 2020 e nel 2021, pareva stesse passando anche l’infinito inverno pandemico. I tank russi in Ucraina, i bombardamenti a tappeto, l’esodo biblico, sono stati una nuova mazzata. Rinviare ancora l’appuntamento previsto a maggio? No, si son risposti i Nonino e i giurati presieduti da Antonio Damasio. Certo, non sarà una festa come tutte le altre del passato... «Ma ripartiamo. Proprio perché si tratta di un premio letterario nato intorno a valori come il dialogo, il rispetto per l’uomo, la natura, la pace, va tenuta accesa la fiammella di cui parlò anni fa, proprio da noi, Peter Brook: “In questa oscurità, una candela a una finestra lontana può già dare speranza”».