Avvenire, 7 aprile 2022
Intervista a Mario Botta
Grazie agli edifici di culto «mi sono state rivelate le radici profonde dell’architettura stessa, gli elementi fondativi del fatto architettonico » ( Il gesto sacro, Electa 2020): da molti anni Mario Botta riprende questo concetto. Esso aleggia anche nella mostra a lui dedicata e intitolata a “Sacro e profano” che si apre domani al Maxxi di Roma: «È la consuetudine, l’uso cui sono destinati – spiega – che distingue l’uno dall’altro spazio. Perché in realtà l’architettura già di per sé comporta l’idea del sacro: essa nasce infatti come l’atto primordiale del distinguere, del separare e racchiudere in un perimetro, definendo un microcosmo distaccato dal macrocosmo. E questo è un gesto sacro».
Eppure, malgrado queste sue radici, oggi l’arte del progettare appare lontana da quelle origini. Manca forse qualcosa nella preparazione accademica?
«Inevitabilmente le scuole riflettono quanto avviene nel mestiere, e questo è legato a un mercato onnipresente, ossessivo e incalzante. Quando in pochi decenni si costruiscono miliardi di metri cubi, tutto viene travolto: la sacralità e l’impegno etico sono soverchiati, e con essi pure la dignità degli alloggi privati come anche l’armonia dei teatri, ridotti a meri palcoscenici. Il consumismo e la globalizzazione soffocano il valore del mestiere e gli strappano la capacità di rivolgersi all’anima. Ed ecco le città ovunque uguali, prive di identità. Anche i materiali perdono quella capacità espressiva che pure avrebbero se fossero ben conosciuti e opportunamente selezionati. Le individualità, le particolarità, le differenze, vengono cancellate. Lo stesso passaggio dall’esterno all’interno perde di significato, come se non esistesse più l’idea della soglia. A parte pochi esempi di maestri dalle grandi capacità, quanto è stato prodotto dai professionisti della mia generazione, ridotti come sono stati a servitori del mercato, lascia veramente tanto a desiderare».
La critica dell’architettura di oggi è diffusa.
«Ma la stessa critica è stata ridotta a brandelli, le riviste sono come cataloghi, spesso concepite in funzione più della propaganda che dell’analisi, come se mancasse una coscienza di fondo. Il risultato è una generale superficialità».
Anche un protagonista qual è Mario Botta risente della profanazione indotta dal mercato?
«Nella contrapposizione tra sacro e profano, il primo è un’ancora di salvezza. Io mi son dedicato a progetti in ambiti diversi, dalle chiese ai musei, alle terme e tanto altro: li avvicino tutti come sacri, perché sono tutti spazi per l’essere umano. Ma capita che nel rapporto col committente tutto sia trattato come merce da vendere. Questa pressione si scontra con l’autenticità dell’architettura, col suo senso profondo e vero: perché ogni opera è un unicum, qualcosa che modifica il panorama, che incide sulla crosta terrestre. Progettare è una responsabilità enorme!».
Probabilmente tanto più lo è per chi è chiamato a progettare un luogo di culto.
«Mi sono occupato di una ventina di tali luoghi: per me è stato un vero privilegio, ognuno di essi è stato un dono del cielo. Quelli attinenti al sacro sono temi che mi alimentano e tra l’altro mi hanno consentito di intrecciare un fattivo dialogo con diversi artisti quali Vangi, Cucchi, Paladino, la cui opera arricchisce le architetture. Sarebbe importante poter usare al meglio della legge che in Italia prevede per tutti gli edifici pubblici che il 2% dell’impegno economico sia destinato alle opere d’arte. Ma ci si scontra sempre col mercato e con i limiti del committente. Se un’architettura vale, ha il suo prezzo, ma ha anche il pregio di dare un contributo significativo al panorama urbano. E col tempo la sua qualità si renderà più evidente».
La responsabilità del committente è enorme!
«Certo. Da lì viene il primo impulso per realizzare l’opera. Ma il committente è colui che maggiormente risente delle distorsioni derivanti dal mercato e così si trovano diversi architetti che, pur avendo talento, sono snobbati ed emarginati. Fortunatamente io nell’ambito della Chiesa ho trovato alcune personalità capaci, colte e aperte al dialogo. Come per esempio il cardinale Ravasi o monsignor Bruno Forte. Con quest’ultimo stiamo lavorando da tempo sulla nuova chiesa di Sambuceto, a Chieti: un edificio molto significativo. Ecco, una costruzione di questo livello è chiamata a dare un contributo importante nel paesaggio, e dev’essere un contributo che esprima il tempo presente: dev’essere autentico, originale, altrimenti non offrirà un buon servizio allo spazio urbano. Come architetto, io rischio quando formulo un nuovo progetto, e ci lavoro conscio che dovrà dire qualcosa di importante e coerente col tempo presente. Se fallisco la mia reputazione ne risente. Bisogna che anche il committente sia disposto a correre questo rischio. Solo così si evita la banalità».
Col cardinale Lustiger ebbe un dialogo proficuo?
«Quando lavorai alla cattedrale di Evry c’era ancora l’eco della tendenza invalsa negli anni Sessanta: la chiesa-fabbrica, nascosta tra le case. Lustiger volle affermare la ricerca di una nuova monumentalità: volle una cattedrale che fosse veramente il nuovo centro della città. Una presenza forte. Era un rischio ma, diceva, nei momenti cruciali bisogna saper rischiare».
Tuttavia le chiese non sono monumenti, sono luoghi per la liturgia.
«Nel progettare seguo una certa gerarchia di pensiero. La chiesa è parte del paesaggio e il dialogo col contesto è fondamentale. Si ricordi l’importanza che un tempo era data all’orientamento, cioè all’abside rivolta verso est. Per quanto questo oggi non sia un tema sentito, il rapporto con l’ambiente circostante resta fondante. Una volta chiarito questo, penso a come lo spazio liturgico vi si armonizzi. Come diceva Rudolf Schwarz, progettare una chiesa significa «disegnare un luogo». E un luogo complesso, che risponda ai desideri, alla sensibilità, alla cultura del nostro tempo».