il Fatto Quotidiano, 7 aprile 2022
La storia dell’auto in mostra al Guggenheim di Bilbao
Il mito della velocità, il culto del progresso. Tecnica, etica, estetica. L’industria, le avanguardie e l’immaginario collettivo. L’esigenza sempiterna di inventarsi qualcosa per non avvelenare il pianeta. La sostenibilità ambientale non è nuova: quando accesero i fanali le prime automobili, il loro scopo era proprio quello di contrastare l’inquinamento dell’epoca, generato dagli ingorghi delle carrozze a cavalli. Adesso, si sa, la rivoluzione elettrica sta per mandare in soffitta i veicoli a combustione. Tanto vale allora celebrarli ancora in vita, nelle loro infinite connessioni con l’arte e l’architettura. Fermare il passato per immaginare il futuro.
Abbiamo visto in anteprima l’attesa mostra che inaugura domani al Guggenheim di Bilbao. Motion – Autos, Art, architecture il suo titolo: tre anni di gestazione, l’ha organizzata il museo basco e soprattutto il Premio Pritzker Norman Foster, con la sua fondazione. A proposito: ieri mattina il grande architetto inglese, elegante come sempre, era presente, sta per compiere 87 anni e ne dimostra venti in meno; non ha fatto che discettare ottimisticamente di futuro. Chapeau.
Sette le sezioni dell’esposizione, dieci sale coinvolte e nell’attraversarle si è avvolti dall’esperienza sonora immersiva plasmata da Nick Mason, il batterista dei Pink Floyd. La storia della quattro ruote a benzina che ha governato il Novecento viene riproposta in ordine cronologico. Sull’altare, misteriose e smaglianti, quaranta automobili, un’antologia dei migliori esemplari di ogni tipo. I bolidi sono piazzati al centro della scena: tutto intorno, opere d’arte e frammenti d’architettura. Frizione e acceleratore, si parte dagli albori. Ecco tornare a ruggire la straordinaria Benz Patent Motor Car del 1886, da cui tutto ebbe inizio. Più in là una Ford T (1914), “l’automobile universale”. Le macchine si sfrondano dei risvolti più rudimentali per avvicinarsi alle stilizzate forme aerodinamiche, grazie all’impiego delle gallerie del vento. No, il progresso non è sempre lineare: si pensi agli antichi egizi, o alla Porsche Phaeton del remoto 900, con motori elettrici nei mozzi delle ruote. Un concetto tanto avveniristico da essere mutuato dalla Nasa sulla luna. Spazio, anzi strada alle auto-sculture (una Bugatti Tipo 57SC Atlantic, una Hispano-Suiza H6B Dubonnet Xenia, una Pegaso Z-102 Cúpula, una Bentley Serie R Continental): simile la vertigine creativa, la maestria nel fondere e trasformare la materia, ossia il metallo della carrozzeria.
La sezione “Popularising” omaggia il grande balzo in avanti compiuto a un certo punto dall’automotive, specie dopo la Seconda guerra mondiale. La sfida stravinta di invadere i mercati con utilitarie moderne e di massa, per tutte le tasche. Tutto ciò senza ridimensionare il genio dei designer: “Less is more”, se si ha vero ingegno. Successi in serie alimentati dalla moda, dal cinema, dalla musica di consumo, dalla televisione. Rivedere a quattr’occhi una Austin Mini o una Renault 4 del 1968 o la nostra Cinquecento del 1957 provoca quasi i lucciconi. E non manca la più compatta e funzionale in assoluto, quel Voiture Minimum ideato da Le Corbusier negli anni 30.
Berline, familiari, sportive. Il desiderio, il glamour diventarono predominanti. Che prodigio senza tempo l’Aston Martin DB5 James Bond del 1964. Queste icone in sfrenato movimento piacevano un sacco ad Andy Warhol e a uno scenografo come Ken Adam. E ancora le automobili utopistiche, fantascientifiche, turbine e motori a reazione, smisuratamente ante litteram. Promesse di velocità e palingenesi radicali consustanziali agli aneliti del futurismo di Umberto Boccioni e Giacomo Balla. Ammirare, per credere, un’Alfa Romeo Bar 7 del 1954 (sembra un’astronave) o una Firebird 1 della General Motors. Risalente al 1954, il paragone più immediato che viene in mente è con gli aerei.
Negli anni Cinquanta vennero persino progettate auto senza conducente. Il futuro era già tra noi: quello con cui si conclude la mostra Motion passa invece in rassegna i lavori di sedici scuole di design e architettura globali. La Norman Foster Foundation le ha invitate a ipotizzare che natura avrà la mobilità alla fine di questo secolo. Duecento anni dopo le prime idee di sedili, clacson, lamiere, volanti e finestrini. Hanno sfornato modelli, audiovisivi, rendering. Pensano che guideremo in modo ecologico, digitale, spartano. Sembra tutto un po’ meno romantico e affascinante, ma non dovremmo tornare a cavallo.