Rivista Studio, 6 aprile 2022
A casa di Giampiero Mughini
A Monteverde Vecchio c’è una villetta gialla, il muretto che separa il giardino dal marciapiede ha finestre tonde che sembrano oblò. Se si alza un poco la testa si vede un albero di metallo che spunta da una delle terrazze. Molti ospiti di Giampiero Mughini lo usano come segnale per capire di essere arrivati nel posto giusto. Appena si entra si vedono nell’ingresso due lampade con i volti di Mughini e della sua compagna Michela, disegnate da Gaetano Pesce, poi due affettuosi setter inglesi, Bibi (per Brigitte Bardot) e Clint (per Clint Eastwood), vengono a salutarti scendendo le scale, dove alle pareti sono appesi alcuni pezzi della storia del fumetto italiano e una pubblicità di Oliviero Toscani con dedica.
Salendo – si cena all’ultimo piano, sotto un adesivo di Prima Linea e una foto di Eichmann di spalle, mentre stende il bucato nella sua cella – non si riesce a non sbirciare dentro le stanze. In questi quattro piani ogni parete, ogni metro quadro, accoglie mobili, opere e oggetti su cui ci si vorrebbe soffermare per qualche minuto. In certi momenti si resta quasi sopraffatti, presi da una vertigine e si resta entusiasti e allibiti, come dentro un antro da Alì Babà e i 40 ladroni, o come nella caverna all’inizio di Aladdin, dove al posto di ori e tappeti ci sono foto di Luigi Ghirri, mobili del gruppo Memphis e tavole di Guido Crepax. Un caleidoscopio della creatività italiana dell’ultimo secolo. Per non parlare dei libri. Mughini, che si definisce «bibliofolle», ha una vasta collezione di prime edizioni, molte autografate, da Malaparte a Svevo. E poi plaquette, manifesti, inviti di mostre, cataloghi, riviste, ex-libris erotici, volantini degli anni di piombo e vinili rari (soprattutto di progressive rock). Sosetsu Yanagi, in un libro che di recente ha avuto un comeback, diceva: «Vedere e conoscere non solo la stessa cosa». Questo archivio invece nasce non solo per il gusto di possedere: Mughini è in grado di ricordare dove si trova ogni volume, e di raccontartene il contenuto, con passione oratoria, mentre apre una bottiglia di rosso. «Il bibliofilo è esposto all’insidia dell’imbecille che ti entra in casa, vede tutti quegli scaffali, e pronuncia: “Quanti libri! Li ha letti tutti?”», diceva Umberto Eco. Sembrerebbe che Mughini si sia avvicinato molto alla totale lettura della sua biblioteca, così come ha memoria della storia di ogni oggetto su cui ha messo le mani (o che si è lasciato sfuggire). La casa è stata comprata per ospitare tutto questo tesaurizzare, dopo anni in cui gli appartamenti non bastavano e diventava necessario affittarne altri nello stesso palazzo, nel centro di Roma, per tenerci consolle anni Cinquanta e annate di Casabella, tavole erotiche di Magnus e vasi di Alessandro Ciffo. Quando il padrone parla di questa casa, si sente nella voce un tono di sollievo nell’avere finalmente un luogo deputato per questo tesoro.
«Lo chiamano il Muggenheim», dice mentre si fa aperitivo. «Inaudito che in Italia non ci sia un museo sui Settanta e dintorni. O forse no, forse esiste. A casa mia. Scarno, povero da riempire, ma c’è». Eppure l’effetto non è quello di un museo, più di un tempio, forse, ma comunque di un luogo vissuto. Ogni oggetto è stato acquistato anche per svolgere la sua funzione, e non solo perché rappresenta l’ingegno e il talento di qualche designer, artista o artigiano. A cena, per esempio, si mangia su piatti in silicone multicolor sotto un lampadario che sembra colare fino ai commensali. La musica si ascolta seduti sulle stravaganti poltrone di Gaetano Pesce. Mughini scrive i suoi articoli e i suoi libri – prima su una Olivetti Valentine ora su un Mac – seduto su una sedia d’acciaio curvato disegnata da Terragni per la Casa del Fascio di Como e passata poi per la redazione di Mondoperaio. La villetta di Monteverde è un luogo dove il design non si guarda e basta, si vive, si tocca. L’ottimo whiskey giapponese si beve seduti sul divanetto di Ico Parisi, nume tutelare del piano terra, o sulla comodissima chaise long di Franco Albini, la Canapo 837. Intorno ci sono ceramiche di Vietri, prodotti Dainese da fare invidia al MoMA, il portaombrelli di Antonia Campi, polaroid di Carlo Mollino e una foto di Luciano Bianciardi. È quella che chiama “Stanza Anni Cinquanta”. «Il cuore pulsante della mia casa», scrive Mughini nel libro appena uscito per Bompiani intitolato, appunto, Il Muggenheim. Quel che resta di una vita. Nelle pagine racconta come è arrivato ad amare certi designer e a voler possedere i risultati fisici del loro «genio». Non ha paura a parlare di soldi, o a mostrare una sana invidia verso collezionisti che gli hanno soffiato un desiderato libro d’artista a qualche fiera o da qualche antiquario (Mughini conosce personalmente i librai di mezza Europa). Fa venire in mente certe pagine di Stefan Zweig dove parla della sua collezione di autografi.
Comparsate in televisione, tra letteratura e Juventus, lunghe collaborazioni coi giornali – da Paese Sera al Foglio – sembra che la carriera di Mughini sia stata dedicata al collezionismo, al circondarsi da manufatti che trovava eccezionali, creando tra l’altro un canone personale estetico-narrativo. E non sarebbe stato nel personaggio mettersi a fare un saggetto cronologico elencando acquisti, stanza per stanza, come se quella fosse una casa-museo municipale, non avrebbe avuto quel tono estroso, assertivo, labirintico e polemico che si respira nella villetta di Monteverde. E così capitoli de “Il Muggenheim” incrociano i momenti pubblici (e privati) della storia italiana, tra aneddoti e tragedie ideologiche, chiacchierate con Sottsass e celebrazioni di Enzo Mari, «il designer sommo su tutti». Come posso parlarti di come sono arrivato a possedere queste tavole originali di Andrea Pazienza senza farti vedere cosa voleva dire essere a Bologna nel ’77 con Freak Antoni e la squadra di Frigidaire? Come posso parlarti di letteratura francese senza portarti nel maggio parigino? Ogni pezzetto del Novecento si può raccontare tramite il tentativo di possederne un simulacro.
Il collezionista vero, perenne insoddisfatto, vive spesso l’attesa di portarsi a casa l’oggetto del desiderio, scrive Mughini, come «un coitus interruptus», «la vita di un collezionista è assieme un inferno e un paradiso».