Corriere della Sera, 6 aprile 2022
Intervista a Serena Dandini
Sognava di diventare l’assistente della sua professoressa di lingue e letterature straniere all’università. «Invece fu proprio la professoressa a segnalarmi alla Rai per fare un provino – racconta Serena Dandini —, di quelli che il servizio pubblico dedicava ai giovani per inserirli nel mondo del lavoro. Se da un lato quella fu la mia fortuna, dall’altro fu la fine della mia sognata carriera universitaria».
Una fortuna iniziata però alla radio, non alla televisione...
«No, iniziata come facchino!».
Cioè?
«Non mi avevano affidato la conduzione di qualche trasmissione radiofonica, ma il compito di portare fisicamente, dall’archivio Rai allo studio dove si svolgeva il programma, i dischi da trasmettere, un bell’allenamento. Poi qualche conduttore ha cominciato a coinvolgermi, a farmi dire qualcosa al microfono e così via...».
Nata in una famiglia aristocratica, con padre avvocato e madre marchesa, da dove le è nata la passione per radio, televisione, teatro...
«Innanzitutto, sono discendente di una famiglia aristocratica sì, ma decaduta, e poi da adolescente mi vergognavo, con i miei compagni di scuola, del cognome e dello stemma nobiliare, in cui non mi riconoscevo e da cui non avevo alcun vantaggio. Per fortuna sono stata l’unica, rispetto a mio fratello e mia sorella, a frequentare le scuole pubbliche e di questo sarò sempre grata a mia madre, un genio, perché ha intuito che con me l’istituto privato non avrebbe funzionato. Sono stata la pecora nera, ma l’intuizione di mamma mi ha reso cittadina del mondo».
Rispetto a una famiglia proletaria, lei cosa ha avuto di più o di meno?
«Ho avuto di più la consapevolezza della decadenza, anche economica: non c’è niente di definitivo, tutto può cambiare all’improvviso, dalle stelle alle stalle, come si suol dire. Si può nascere in un posto al sole e conoscere poi il lato oscuro. Mio padre si era mangiato tutto, era rimasto solo lo stemma, che non so neanche bene cosa rappresenti: da lui non ho ereditato palazzi e gioielli, ma senso dell’umorismo e questo mi ha aiutato ad affrontare la vita, a dover contare solo sul mio impegno. Ho sempre temuto di finire in tailleur con la collana di perle».
Una contestatrice?
«Una ribelle sin da quando, minorenne, andavo al Piper di nascosto: il tempio della beat generation, un mito. All’epoca il locale aveva un’apertura anche pomeridiana e con un paio di amichette, uscite di casa con qualche bugia, ci accorciavamo le gonne, ci passavamo un rossetto sulle labbra per apparire più grandi e ci presentavamo all’ingresso, dove c’era un tipo severissimo: decideva se farti entrare oppure no».
I suoi genitori non se ne sono mai accorti?
«Mia madre sì, e ne fu terrorizzata: il Piper era luogo di perdizione. Una volta le proposi di venirci con me e, con mio grande stupore, accettò la proposta. Lei, con il suo tailleur e il filo di perle, fu scioccata dall’ambiente, dai ragazzi che si baciavano in pubblico, dal volume della musica... Avrebbe voluto mantenere il suo aplomb e invece, seguendomi sulla pista da ballo per controllarmi, si perse una scarpa. Il mio intento era rassicurarla, ottenni l’effetto contrario...».
Lei ha sempre puntato sull’effetto contrario, a cominciare dal suo primo grande successo, «La tv delle ragazze».
«Più di trent’anni fa, abbiamo portato sul piccolo schermo il nostro “triunvirago”, ovvero l’energia dell’universo femminile, l’indignazione nei confronti del fatto che l’umorismo fosse terreno solo maschile e che le donne, per far ridere, dovevano necessariamente essere bruttine, quindi la loro comicità scaturiva dai difetti fisici. Abbiamo combattuto contro gli stereotipi. Per noi un faro era stata Monica Vitti, affascinante e buffa al tempo stesso. E poi Franca Valeri, ironica geniale. Le cose sono un po’ cambiate, ma non è sufficiente. Un consiglio alle ragazze di oggi: state attente, non vi distraete, basta poco per tornare indietro rispetto a certe conquiste, non solo artistiche».
Si riferisce alla violenza sulle donne: dieci anni fa uscì la prima edizione del suo «Ferite a morte». Ora è in libreria la versione aggiornata (Rizzoli), dove torna a dare voce alle vittime di femminicidio.
«Quando ho scritto la prima versione, non si poteva usare il termine femminicidio. Per questo genere di omicidi, la dicitura era “raptus di follia” o “delitto passionale”. Ma se non si può dare un nome preciso a un fenomeno non lo si può combattere. Non avrei mai immaginato che saremmo stati ancora qua a contare le vittime. Nonostante le buone leggi che sono state varate negli ultimi tempi nel nostro Paese, i numeri sono impressionanti e se non affrontiamo questa piaga insieme agli uomini non se ne esce. Proprio gli uomini devono farsene carico, essendone gli artefici».
Per questo ha inserito nel nuovo testo la testimonianza di un uomo?
«Ho immaginato un uomo che bussa alla porta di un paradiso popolato dalle vittime, mogli, fidanzate, sorelle...».
«Donne, attente»
Siamo un Paese maschilista. Secondo me, nomineranno una donna quando ci sarà l’inguacchio, cioè un lavoro sporco da risolvere
La pandemia ha costituito un’aggravante?
«Certamente. Per molte donne stare chiuse tra le mura domestiche con il proprio aguzzino è stato un incubo».
Non solo i femminicidi, le donne devono ancora percorrere una lunga strada per conquistare ruoli rilevanti in politica.
«Purtroppo sì, la leadership è un’annosa questione. Nel 1971 Enzo Biagi chiedeva a Monica Vitti: perché si batte per il femminismo? E lei rispondeva: perché forse è ora! Una risposta che non mi pare proprio passata di moda. Quando si parla di nomine importanti, pur essendoci un elenco sterminato di personaggi femminili con competenze eccezionali in ogni campo, vengono ignorati. Siamo in un Paese patriarcale, maschilista e alle donne non viene riconosciuta la dovuta autorevolezza. Secondo me nomineranno una donna quando ci sarà l’inguacchio, cioè un lavoro sporco da risolvere, così se va male è colpa della nominata. È la sindrome Enza Sampò: la conduttrice mi raccontava che la sua era stata una carriera di sostituzioni di colleghi, la chiamavano se qualcuno si ammalava o per altri imprevisti. Ma voglio essere ottimista: a forza di picconate le cose miglioreranno».
Tra i suoi numerosi programmi, a quale è maggiormente affezionata?
«Sono tutti figli adorati, ma ricordo con divertimento la prima edizione di Parla con me, che venne attaccato da Silvio Berlusconi per lo sketch satirico “lost in wc”, dove due ragazze, presunte olgettine, erano chiuse nel bagno di un palazzo di potere, presumibilmente Palazzo Grazioli. Nello stesso programma facemmo oltretutto un’incredibile anticipazione di quanto sta avvenendo».
Quale?
«Neri Marcorè imitava Putin e nella scenografia dello sketch era rappresentato un grosso tubo del gas, con tanto di enorme manopola che lo zar minacciava di chiudere se veniva contraddetto. Ad ogni mia domanda scomoda, lui si arrabbiava, chiudeva il gas e lo studio televisivo calava nel freddo polare».
«Avanzi» fu un caposaldo della satira...
«La nostra classe mista, uomini e donne insieme, ne combinava di tutti i colori. Ma eravamo agli esordi del programma, il budget era molto basso e i nostri attori, per realizzare bene le varie imitazioni, necessitavano di strumenti. Quando Francesca Reggiani imitava Enrica Bonaccorti accadde un problemino: per somigliarle aveva bisogno non solo della parrucca giusta, abiti, trucco, ma anche di una dentiera che evocasse l’appariscente sorriso della famosa conduttrice di Non è la Rai. La dentiera costava parecchio. Una sera, a fine spettacolo, Francesca la ripone in camerino avvolta in un kleenex. La mattina dopo le donne delle pulizie buttano quel kleenex, non sapendo del prezioso contenuto. Eravamo disperati e tutti quelli di Avanzi, vestiti e truccati, tipo Sabina Guzzanti-Moana Pozzi, Cinzia Leone-Edwige Fenech, o Corrado Guzzanti-Rokko Smithersons, cominciarono a grufolare nei cassonetti della spazzatura davanti allo studio Rai: cercavano i denti della Bonaccorti!».
Li trovarono?
«Purtroppo no, facemmo una colletta per ricomprare la preziosa dentiera».
Da alcuni anni lei realizza a Firenze il festival «L’eredità delle donne».
«Non è un festival delle donne, ma dove le donne possono parlare liberamente di tutto, anche dei loro difetti».
Per esempio?
«Bè, capita spesso di essere competitive tra noi, e questo in certi casi non aiuta. Purtroppo riusciamo a essere stron... come gli uomini e forse anche di più».
Lei ha una figlia, Adele Tulli. È stata una brava madre?
«A causa del mio lavoro, credo di essere stata una madre ingombrante. Adele è stata giustamente molto critica nei miei confronti e ha voluto fare il suo percorso indipendentemente da me. Ora ha 39 anni, fa la documentarista, è più colta, più preparata di me e siamo al giro di boa: è il momento della riconquista, abbiamo un rapporto meraviglioso. Voglio consolare, rassicurare tutte le mamme delle ventenni di oggi: la razza migliora».
L’anticipazione
A «Parla con me» Neri Marcorè imitava Putin: nello sketch lo zar minacciava di chiudere un grosso tubo del gas se veniva contraddetto
E lei, col passare degli anni, con l’età che avanza, migliora?
Ride di cuore: «In questo mondo di forever young, non è facile invecchiare. La vulgata dice che gli uomini, quando invecchiano, diventano interessanti, mentre le donne sono come al solito penalizzate. Mi piace però ricordare una frase del film Harry ti presento Sally dove, riguardo alla procreazione in età avanzata, lei dice a lui: per voi uomini è diverso, Charlie Chaplin ha avuto figli fino a 73 anni. E lui le risponde: sì, ma non riusciva a tenerli in braccio!».