la Repubblica, 6 aprile 2022
Intervista a Loriano Macchiavelli
«Un giorno, il maresciallo dei carabinieri del mio paese mi ha convocato in caserma… e quando i carabinieri convocano, c’è sempre un guaio in vista. Non ricordo di essere mai stato chiamato per motivi divertenti o conviviali. Dunque, mi siedo, mi guarda con intensità come se stesse cercando le parole per comunicarmi l’atto d’accusa per un omicidio e poi, di colpo, mi chiede: “Lei cosa ne pensa? Ha qualche ipotesi?”. Voleva sapere cosa ne pensavo di un omicidio particolarmente feroce avvenuto in paese e per risolvere il quale aveva tentato di tutto senza arrivare a nulla. Io ero l’ultima sua risorsa, io, uno scrittore che i delitti li inventa».
Nel suo buen retiro in quel Montombraro, nell’amato appennino modenese, a due passi da Zocca, il paese di Vasco, «ma anche il mio», puntualizza con l’abituale gentile fermezza, Loriano Macchiavelli, con buona pace delle sue ottantotto primavere, sta lavorando al prossimo romanzo insieme a Francesco Guccini. Ci sentiamo per telefono – rigorosamente fisso – e ci scambiamo mail. Riflettiamo sullo stato dell’arte del poliziesco italiano, e, come sempre, mi colpisce l’orgogliosa fedeltà di Loriano alla sua personale, non negoziabile idea del genere letterario.
L’episodio del maresciallo, secondo me, potrebbe essere usato a sostegno della tesi, della quale molti si rammaricano, di una sorta di egemonia culturale del poliziesco.
«Il poliziesco italiano sta indubbiamente vivendo un momento magico. Abbiamo tutto quello che mancava, dai nuovi editori ai nuovi scrittori, da giovani entusiasti che scrivono e che sperimentano a una critica finalmente attenta, dai giornali che non vedono l’ora di pubblicare articoli alle importanti case editrici che non vedono l’ora... Abbiamo soprattutto dei lettori e di questi, noi scrittori, dovremo tenere conto.
Pensa che anche autori famosi, che in passato avevano storto il naso al solo colore giallo, oggi si sporcano le mani».
Non credo che farai qualche nome.
«Ma ti darò qualche indizio: pensa a quanti fanno contrabbando letterario, gridando a destra e a sinistra che i loro si possono anche ritenere romanzi gialli, ma romanzi gialli atipici».
Chiaro. Ma quando il tuo personaggio più noto, Sarti
Antonio, nasce, nel ’74, le cose stanno diversamente.
«Il successo del poliziesco italiano non è nato dall’oggi al domani, è frutto di paziente lavoro, di tentativi, d’incontri fra scrittori e scrittori, fra scrittori, critici e studiosi... Ho vissuto in prima persona le numerose esperienze per creare in Italia un’associazione a delinquere, che altro non sono gli scrittori di giallo, ci ho provato ripetutamente, finché nel 1990, con il gruppo 13, insieme a Marcello Fois e a Carlo Lucarelli, non siamo riusciti a creare qualcosa di duraturo».
Mi piace questa definizione ironica e affettuosa, “associazione a delinquere”… sento però affiorare una certa insoddisfazione per lo stato dell’arte…
«Vedi, l’episodio del maresciallo per me significa che l’associazione a delinquere di noi giallisti si avvia a diventare un’agenzia di pettegolezzo, in bilico fra letteratura e giornalismo spazzatura».
La vis polemica non ti è mai mancata, Loriano!
«Ti dico il mio parere: il romanzo noir, a differenza del giallo, dovrebbe dare fastidio al potere. Il giallo ristabilisce un ordine sociale che il delitto ha turbato. Il noir ha il compito di turbare ancor più l’ordine costituito. Cioè, ammesso che la letteratura si dia uno scopo, questo è di ricostruire la realtà raccontando il nostro mondo, ma per rifiutarlo.
È accaduto quando finalmente Chandler e Hammett hanno dato al delitto la motivazione che la connota ancora oggi e, in un certo senso, la giustifica: la ricca borghesia sopravvive e prospera grazie al delitto. Insomma, il genere noir (cinema, tv, letteratura) per essere efficace deve “disturbare”».
Scusami, ma tutti noi, chi prima chi dopo, siamo stati accusati di aver fatto propaganda al Male, glorificato la delinquenza, attaccato le istituzioni… non mi pare che ci abbiano mai iscritto nel girone dei rassicuranti.
«Dici? A me non sembra. Anzi, c’è da chiedersi se il noir serva ancora per raccontare il nostro mondo. La mia risposta è no. Almeno non come è “scritto” oggi dalla gran parte di scrittori (e nella lunga lista mi ci metto anch’io), soggettisti, sceneggiatori. Infatti il noir non preoccupa più nessuno».
Al dunque, tu sostieni che l’affermazione del noir è la sua sconfitta.
«Sì. È inutile continuare a raccontare il nostro mondo così com’è, con le sue brutture, le sue sopraffazioni, le sue disuguaglianze, le sue “guerre preventive”, il suo capitalismo e la sua povertà. È una questione sociale: il mondo è trasformabile: si può non essere d’accordo sui metodi e sui mezzi per trasformarlo; si può non accettare certe ideologie che si vorrebbero instaurare al posto delle ideologie imperanti, ma non credo si possa mettere in dubbio che così com’è questo mondo nel quale siamo costretti a vivere non ci piace, non funziona e ha bisogno di essere cambiato.
Dobbiamo raccontare che queste leggi e queste forze dell’ordine (quale ordine?) non funzionano perché tutelano solo una parte della società. I delitti non possono più avere una soluzione (una spiegazione?) giudiziaria o una logica indagativa perché non c’è più logica nelle leggi e nelle forze dell’ordine. È inutile fingere rabbia o tristezza o disillusione per la realtà e non avere speranze di cambiamento».
Però nei tuoi libri rabbia, tristezza, disillusione abbondano.
«Mi rimetto ancora a Chandler, con il suo Marlowe, simbolo della ribellione individuale alle iniquità dell’ordine costituito. Ribellione individuale alle iniquità dell’ordine costituito: io ci sto con questa definizione. Mi va bene».
Ho appena finito di leggere “La stagione del pipistrello”, ultima avventura del tuo Sarti Antonio.
Puoi professarti scettico finché ti pare, ma in questo romanzo gli ingredienti del cocktail che ti ha reso celebre ci sono tutti, e come lettore sono rimasto inchiodato e turbato da questa vicenda ambientata in una Bologna di dopodomani che cerca di risollevarsi dalla pandemia e dove scorrazzano bande neonaziste e sbirri corrotti e bussano alla porta cupi segni di un tetro futuro di violenza e sopraffazione. E c’è l’impianto di sempre, compreso quel “sergente” che in polizia non esiste più da tanti anni…
«Andiamo, non ne posso più dei lamenti nei confronti di scrittori che non si attengono alla procedura, cioè alla realtà. I gradi, la procedura!
Te lo immagini Phil Marlowe o Sam Spade che si attengono alla procedura?».
Peccato che Gianni Cavina, il Sarti Antonio che rimarrà per sempre nel nostro cuore, se ne sia andato appena qualche giorno fa.
«Gianni è stato uno straordinario Sarti Antonio, si era talmente immedesimato… pensa che quando scrivevo mi chiedevo se ce l’avrebbe fatta a scavalcare quel cancello o sfondare quella porta. E dire che mi sono innamorato di lui vedendolo all’opera, perché all’inizio ero molto perplesso».
Loriano, a bruciapelo: come vedi il futuro?
«Come nel finale del romanzo».
Che non si può rivelare…
«Allora diciamo che di quello che accade nella Bologna di dopodomani, come dici tu, c’erano tutti i segni e noi non siamo stati in grado di leggerli».