La Stampa, 6 aprile 2022
Un prete a Gomorra
Due carabinieri in borghese stanno davanti alla chiesa di San Paolo Apostolo, due militari prima del crocifisso. E dentro la chiesa c’è un parroco solo. Si chiama don Maurizio Patriciello: «Credo che ci sia stato un giorno spartiacque nella mia vita, tanti anni fa. Era venuto a trovarmi un vecchio amico. Mentre parlavamo, proprio qui dentro, gli rubano l’auto. «Mi hanno rovinato», si disperava. Faceva il rappresentante. Mi sentivo in colpa. Ero più giovane, più stupido, più imprudente. Così sono andato in un posto e ho detto una frase che non dovevo dire: «Riportate la macchina, altrimenti domani arriverà l’esercito». Mi hanno caricato su un’auto. Siamo arrivati in un vicolo buio, pioveva. Si presenta una persona, la riconosco e mi dice: «Come ti sei permesso di parlare dell’esercito? Non ti permettere mai più! Tu fai il prete e basta. E per tutto quello che ti serve vieni a casa mia». Io urlavo. Non mi faceva scendere. Urlavo mentre in lontananza è passata un’auto della polizia. Mi sono giocato il tutto per tutto a forza di gridare. Quando sono ritornato in chiesa, l’auto rubata era davanti all’ingresso e quel giorno hanno capito che non facevo il prete come volevano loro».
A Caivano, a Nord di Napoli, l’esercito non è mai arrivato e le minacce non sono mai finite. I clan si fanno la guerra per il controllo dello spaccio. Ogni tanto qualcuno spara, e qualcun altro muore. Dopo il primo avvertimento, altri ne sono arrivati per don Maurizio Patriciello. Il penultimo è stata una bomba carta esplosa davanti all’ingresso della chiesa. Era la notte dell’11 marzo: il giorno del suo compleanno. «La camorra ci tiene alle ricorrenze. Hanno annerito il muro e sono saltate delle piastrelle. Il boato è stato molto forte. Tre giorni prima avevano fatto trovare il manifesto funebre al comandante dei vigili urbani di Arzano, Biagio Chiariello, con sopra scritto il giorno della sua morte».
Poi sono successe altre tre cose. Don Patriciello ha fatto testamento. La ministra dell’Interno Luciana Lamorgese gli ha affidato la scorta con procedura d’urgenza. E nonostante la scorta, pochi giorni fa gli è stato recapitato un nuovo messaggio davanti alla chiesa: «Bla, bla, bla. Pe mo». «L’interpretazione è duplice. Potrebbe voler dire: per adesso abbiamo solamente parlato. Oppure: fino adesso avete solo parlato. Ecco, questa seconda versione sarebbe più auspicabile». I carabinieri presidiano l’ingresso, don Patriciello usa l’ironia come arma di difesa. Racconta che l’inizio di tutto è stata la ricostruzione dopo il terremoto del 1980. Quando le famiglie più povere, delle zone più povere, furono prima ammassate nei container e poi portate in questi quartieri dormitori: «Uno scempio dal punto di vista politico, urbanistico, economico, sociologico e spirituale. Hanno fatto dei ghetti della povera gente. Ma all’inizio c’era un tessuto, c’erano persone onestissime, operai, pensionati, c’era un po’ di armonia. Poi negli anni chi ha potuto se ne è andato, erano assegnatari di case che avrebbero dovuto restituire al Comune. Ma non è successo. Sono state occupate da parenti e poi da amici. E quando la camorra ha capito l’affare, ci ha messo le mani dentro. Ogni casa, ogni locale, ogni tetto è occupato. Lo sto ripetendo da anni. Guardate che se continuate così questi quartieri diventeranno una bomba».
Una bomba davanti al sagrato della chiesa, qui al Parco Verde. Dove due bambini sono morti volando giù dalle finestre, dove l’8 di luglio una banda di 24 ragazzini in motocicletta, alcuni a torso nudo, sono passati per le strade sparando colpi di kalashnikov a caso. Dove uno di quei ragazzi ha mandato un messaggio vocale a un amico con queste parole: «Quando morirò, nei prossimi giorni, seppellitemi sopra sotto. Che mi dovete baciare il culo». E un ragazzo, in effetti, è stato ucciso. Uno di quelli della stesa. Si chiamava Antonio Natale, aveva 22 anni. «Un clan contro l’altro, è sempre la stessa storia», dice don Patriciello.
Prima di farsi prete era infermiere al Policlinico di Napoli, un ragazzo «guardabile» dice lui. Figlio di contadini senza terra, che affittavano i campi d’estate per crescere le pesche e i meloni. «Un giorno andavo a Napoli verso l’ospedale. Quando accanto al bosco di Capodimonte vedo questo frate scalzo che chiede un passaggio, mi incuriosisco, mi fermo e eccomi qui. La vocazione mi è sgorgata nel cuore». Anni a fare battaglie per denunciare la Terra dei Fuochi, veleni che ancora fanno ammalare le persone e le bestie. Anni di funerali a ragazzi morti di overdose, palloncini bianchi e retorica: «Ma non sarebbe meglio avere questi angeli qui sulla terra?». Anni lontano da tutti, e qui sotto gli occhi di tutti. Nell’ultima omelia, don Patriciello ha detto: «Mamme, c’è solo un modo per salvare vostro figlio. Se vi porta una torta nel giorno del vostro compleanno e sapete che non lavora, dovete chiedergli dove ha preso i soldi per comprarla. Dovete avere il coraggio di tirargliela in faccia, quella torta».
Stanno minacciando don Patriciello, il suo modo non piace a tutti in questa periferia. Lo ha chiamato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, lo cerca adesso Ernesto Olivero. Ha istituito un comitato di liberazione dalla camorra con il senatore Sandro Ruotolo. È arrivata la ministra Mara Carfagna a constatare che, proprio qui davanti, non ci sono neppure le telecamere. «Mi chiamano al telefono. Pregano per me. È un grande aiuto psicologico. Ma poi loro sono là, e io sono qui. Proprio la ministra Lamorgese ha detto che per troppi anni in questo parco c’è stata negligenza da parte dello Stato. Questa è una grande verità. Per esempio i vigili urbani: dovrebbero essere 54, ne abbiamo 8». Perché le cose non cambiano mai? «Perché come diceva il grande Corrado Alvaro, alle domande serie occorre dare risposte serie». —