La Stampa, 6 aprile 2022
Due settimane nelle mani dei russi
Sasha maneggia nervosamente il cappio d’acciaio. Non lo lascia nemmeno un attimo, è diventato parte di sé, appendice drammatica della feroce cattività. Lo stringe nervosamente quando parla dei suoi giorni da prigioniero dei russi, la strofina gonfiando la rabbia, molla la presa solo dopo averla sfogata: «Maledetti assassini».Sasha vive a Trostianets, nell’oblast di Sumy, un’ora e mezza circa di auto a nord-ovest di Kharkiv, l’ultimo villaggio liberato della regione, dopo un mese di occupazione dell’armata di Vladimir Putin. Si tratta di un centro di 17 mila anime, noto per il “Santuario delle Ninfe”, memoriale centenario del 1809 per la battaglia di Poltava. E per l’agglomerato di fabbriche che si sviluppa attorno alla stazione ferroviaria, una specie di monumento post-sovietico. Le ultime truppe di Mosca si sono ritirate il 3 aprile dalla regione, e qui, solo qualche giorno fa, si è consumata l’ultima battaglia di liberazione, con lo sfondamento degli ucraini e il ripiegamento dei russi, completato il quale si è alzato il sipario sul palcoscenico del terrore. Percorrendo la strada verso Trostianets l’asfalto diventa dapprima crepato, via via ingoiato dai crateri causati dall’artiglieria, sino a cedere il posto allo sterrato, laddove la battaglia non ha lasciato traccia di civiltà. Il ponte che sovrasta il fiume Boromlya è distrutto, occorre procedere su una specie di pedana arrangiata dai genieri a pelo d’acqua. L’ultimo tratto verso la cittadina è un tunnel verso morte e distruzione, palazzi sventrati, veicoli polverizzati, monumenti diroccati. Solo qualche chiesa è rimasta in piedi, errore di tiro più che ultimo briciolo di misericordia. Le poche persone vaganti tra le macerie assomigliano a zombie di Romero, all’entrata della cittadina c’è un cimitero di mezzi russi inceneriti. Il piazzale davanti alla stazione è una landa desolata dove il fango sembra aver inghiottito ogni traccia vivente. La sequenza della battaglia è sfacciata, carcasse dei mezzi, casse di munizioni riempite di sabbia e usate come trincee rialzate e missili Grad ancora intatti. Il centro dei volontari riaperto da 24 ore è una cucina a ciclo continuo dove si confezionano pasti caldi per chi rimette il naso nella città dopo essere scappato e per chi è riemerso dall’incubo della cattività. «Ricordatevi di Sasha», dice uno dei corrieri. Sasha il sopravvissuto, appunto. Seguiamo il pasto caldo per arrivare nella sua abitazione che porta i segni vivi dello stupro russo. «La città è stata occupata per 28 giorni – spiega Miroslav Shylo, giovane capo dei volontari – All’inizio non ci sono stati grossi problemi con le truppe regolari russe. Poi hanno mandato soldati dal Dagestan ed i separatisti di Donetsk. Sono cominciati i saccheggi, le detenzioni arbitrarie, torture e sparavano senza problemi a chiunque non gli piacesse». Gli invasori hanno dipinto la Z, rossa, su un’ambulanza fermata con raffiche di Ak-47. Proprio in quei giorni tre soldati di Mosca sono andati a casa di Sasha, hanno preso lui e il suo amico Mikolay, gli hanno legato le mani dietro la schiena con il cappio di acciaio, uno di quelli usati nei cantieri della zona. «Non sono un militare né ho cariche politiche, non capisco tanto accanimento». Bendati e inginocchiati sono stati picchiati, la casa devastata. «È una tortura quel cappio ti sega i polsi – racconta mostrando i segni sui polsi – Mi hanno anche frustato e sottoposto a finte fucilazioni». I russi lo portavano all’aperto e gli sparavano vicino alla testa con il kalashnikov, sono stati gli unici momenti d’aria della prigionia durata quasi due settimane. La sua galera è stata uno scantinato di un palazzo della stazione. «Ve lo mostro», dice guidandoci nel campo di fango costellato da bossoli, schegge e resti del bivacco delle brigate russe. Per entrare nell’edificio malconcio dobbiamo scavalcare una porta finestra rimasta incastrata e senza vetri, poi giù per le scale, ogni gradino è un scampolo di luce in meno e un rincaro di olezzo penetrante. «Qui ci tenevano come bestie assieme ad altri prigionieri, sia civili che soldati. È stato un incubo» ricorda Sasha, mentre gli occhi si iniettano di sangue, il cappio di acciaio è sempre stretto nella mano. Davanti alle scale c’è una stanza di un metro e mezzo per due, senza finestre e dalle pareti spoglie, se non fosse per le ombre che incutono subito angoscia. Per terra i resti della prigionia, un paio di coperte lerce, una scarpa, del cibo e le razioni k dall’armata di Putin usate per fare i bisogni personali, il bagno non era concesso. L’intero ambiente è ancora pregno dell’odore di urina. «Con me c’era il mio amico Mikolay, non ci hanno separato, pensavo che in quella disgrazia fosse stata una fortuna, ed invece…». Mikolay è morto sotto gli occhi di Sasha e degli altri prigionieri, ucciso dai calci dei soldati russi, all’addome, alla testa. Il sopravvissuto illumina il muro con la torcia, il rosso consumato riempie la parte bassa di una delle pareti: «È il sangue di Mikolay». Gli aguzzini non hanno avuto pietà sino a quando il giovane non ha esalato l’ultimo respiro. Non è stato l’unico a pagare caro la follia terroristica degli occupanti, spiega Sasha, «sbattevano contro il muro la testa dei prigionieri». Almeno sei prigionieri sono stati uccisi dalle forze di occupazione. «Io sono stato più fortunato, mi facevano inginocchiare legando mani e piedi per picchiarmi».La fine dell’inferno è arrivata con la battaglia, durante la quale è stata liberata la stazione ferroviaria. Proprio mentre ricorda quelle fasi, Sasha si aggrappa alle sbarre nere della sua cella e ripete “slava ukraini” con gli occhi fissati nel vuoto. Sembra rientrare nella dimensione della cattività, per poi uscirne con l’affanno quando dice «non ce la faccio devo andarmene da qui». Ripercorre le scale di corsa proprio come era accaduto il giorno della fuga: «Appena sono riuscito a tornare o a casa ho aperto una scatoletta di tonno e ho bevuto tre bicchieri della vodka che facciamo noi, non volevo pensare». Secondo Dmytro Zhyvytskyi, capo dell’amministrazione militare di Sumy, «tre civili torturati sono stati trovati nel distretto di Konotop, nelle aree appena lasciate dalle truppe russe». Due soldati russi sono invece stati catturati mentre tentavano di confondersi tra la gente che tornava a Trostianets. Ce ne sono altri in giro? «Forse», dice Sasha mentre si accende la sigaretta, la mano trema, l’altra non tiene stretto il cappio d’acciaio. —