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 2022  aprile 06 Mercoledì calendario

Gianni Cuperlo intervista Michele Serra

A Michele Serra invidio da sempre il talento della scrittura. Un’invidia sana, consapevole che quella dote ce l’hai o non ce l’hai. Credo sia un po’ come per la politica. Magari da ragazzo speri di essere l’incarnazione di Machiavelli, poi, crescendo, prendi le misure e capisci che non è così.
Tutto sta a farsene una ragione, il dramma è quando trovi qualcuno che pure sapendo di non esserlo si comporta come se lo fosse. La premessa perché in un tempo che ci scaraventa nel passato parlare con chi da una vita osserva la sinistra con occhi liberi da pregiudizi può aiutare a capire qualcosa in più. Della realtà e di noi.

Michele dobbiamo per forza partire dalla guerra che torna dentro l’Europa non dopo il 1945, ma dopo i Balcani e già questa rimozione colpisce. Come se quel pezzo di continente non ci appartenesse. Invece la nostra è una storia complicata. Esiste un’Europa politica, ma anche letteraria e geografica, se una colpa abbiamo è aver pensato che si potesse separare il destino di quelle dimensioni. Letta così questa guerra è la prima di un’èra nuova o l’ultima di quel Novecento che tutto è stato meno che un “secolo breve”?
«Il nazionalismo russo è una cosa vecchia o una cosa nuova? Quando vedo e sento Dugin e il patriarca Kirill, con le loro lunghe barbe candide, mi sembra che non il Novecento, ma tutta la modernità sia sparita nel nulla. Ideologicamente questa è una guerra medievale. La paura che stiamo vivendo è che l’intero processo di democratizzazione, i diritti individuali, il cosmopolitismo, la laicità, la libertà sessuale, insomma i valori europei, abbiano riguardato soprattutto le élites culturali e sociali. In questo senso l’Europa rischia di trovare i suoi confini non per lungo e per largo, ma “in basso”. Quanto è profonda, nei ceti popolari, l’idea di democrazia? Quanto sono ancora i soggetti, un secolo dopo il nazifascismo e lo stalinismo, a riconoscersi in un capo forte, aggressivo, arcaico?»
Putin ha invaso l’Ucraina e la condanna deve misurarsi con le azioni necessarie a sostenere la resistenza di un popolo. Per noi è il risveglio dal sogno-mito di un mondo pacificato e vittorioso. Invece ti trovi di nuovo alle prese con un “nemico”. Però chi fosse Putin lo si sapeva pure prima del 24 febbraio. Nel 2014 si era annessa la Crimea e l’Unione europea ha proseguito imperterrita a pompare gas dalla Russia e a vendergli armi in barba all’embargo. Pensi che noi europei, noi occidentali, siamo legittimati a impugnare i valori che rivendichiamo se, da Kabul passando per la Siria e i miliardi a Erdogan perché si tenga i profughi in casa, quei valori li scordiamo appena sono intaccati i “nostri interessi”?
«Proviamo a vedere il bicchiere mezzo pieno: finalmente si riparla di valori e di ideali, non solo di quattrini. Nessuno sottovaluta gli interessi economici, la potenza dell’economia come motore della politica. Ma ci stiamo accorgendo, di colpo, che anche i valori e le idee (quelle giuste e quelle sbagliate) contano, eccome. In questo senso Putin può ben dire di avere mosso guerra senza avere messo nel conto le ricadute economiche negative. La sua è una guerra ideologica, in odio alla decadenza dei costumi dell’occidente molle e corrotto. Lo ha detto, lo ha fatto. Quanto a noi, vedremo se siamo capaci di pagare un prezzo ai nostri, di princìpi. Magari, tanto per cominciare, dovremmo cominciare a prenderli sul serio anche quando i nostri stessi princìpi ci mettono sotto accusa. Vogliamo parlare di quella enorme porcheria che fu la guerra in Iraq?».
Sì, porcheria credo sia il termine giusto. Tu “lavori” con le parole, forse anche questo ti porta a giudicare insopportabile la “soggezione della parola pubblica all’applauso”. La rete ha scatenato i leoni da tastiera, ma non credi che il problema stia in un discorso pubblico che ha visto la faziosità dominare sul senso critico?
«Diciamo che il discorso pubblico era già predisposto a diventare bellicoso… Tu sai come la penso sui social, sul peggioramento di clima, e anche di lessico, che hanno introdotto. Ma non sono migliori, e anzi sono anche più nefasti, quei talk show con sei sette persone per volta che si levano la parola l’una con l’altra. E sbuffano o sogghignano mentre parla l’altro. La guerra ha peggiorato la situazione, ovviamente, la guerra è la semplificazione per antonomasia. La nemica numero uno del dialogo, della dialettica, della polis. Dunque sì, il clima è pessimo. Non resta che cercare, ognuno nel suo, di tenere basso il volume e alto il livello. E non piegare la testa quando ti guardano male perché hai dimenticato l’elmetto. Abbiamo già dato con l’obbligo di mascherina, per cortesia risparmiateci l’obbligo di elmetto».
Insisto, non ti sembra un paradosso che mentre moltiplichiamo canali e opportunità del comunicare si finisca col ridurre il pluralismo con un richiamo all’ordine dentro le diverse casematte del giudizio? In fondo Pasolini scriveva sul Corriere della Sera, compreso quello storico «Io so…» del 14 novembre 1974 quando denunciava il golpe «a protezione del potere». Oggi l’impressione è di un’informazione dove un “Pasolini fuori posto” forse non avrebbe una testata dove scrivere.
«Purtroppo sì, l’informazione è in larga parte arruolata, fa scandalo l’opinione del fanatico fuori controllo, e si capisce, ma fa scandalo anche l’opinione pacata, quando per esempio si osa dire che l’esistenza di paesi neutrali come la Svezia, la Finlandia, l’Austria, per quanto difficile, sarebbe vitale per svelenire il clima internazionale. Diventi subito “amico di Putin”, in termini logici è una cazzata spaventosa, ma in termini psicologici funziona benissimo: siamo la democrazia contro la dittatura, siamo il Bene contro il Male e dunque chiunque avanzi mezzo dubbio, faccia mezza critica, è un traditore. Il paradosso è che “i nostri valori” dovrebbero comprendere, per primo, quello della tolleranza, della dialettica, della critica: altrimenti, che razza di “occidentali” siamo?».
Di recente su Pasolini hai ragionato e mi ha colpito quando spieghi perché per dire “Io so” bisognava essere Pasolini nel senso che «in bocca ad altri quell’azzardo, quella lucente furia, sarebbero sembrati ridicoli o inverosimili, o peggio ancora insignificanti». Mi ha fatto ripensare a uno slogan usato da Obama, diceva «Noi siamo quelli che stavamo aspettando!». Bellissimo! Solo che se lo dice lui scalda i cuori, qui potrebbe dirlo solo Carlo Verdone alias Armando Feroci mentre spiega che da sindaco della città asfalterà il Tevere per far “scorere” il traffico. Perché abbiamo smarrito ogni capacità di risultare solenni anche quando tutto lo richiederebbe?
«Pasolini poteva dire quello che ha detto perché era un grande artista. Che è qualcosa di più, io credo, di un intellettuale. C’è una “luce”, nella parola dell’artista, che le permette di violare anche le leggi della ragionevolezza. Anche la politica, a volte, può permettersi quella potenza, pensa i comizi-sermoni di Martin Luther King. Ma per farlo, la politica deve avere visione: è come se, per guardare più lontano, più in là, tu dovessi alzarti, salire su una sedia, su una scala, dare prospettiva al tuo sguardo. E il guaio è che la politica ha smesso di farlo da quando è diventata semplice amministrazione del presente, non più progetto del futuro. Fa parte, se ci pensi, dello stesso equivoco che sta alla base della teoria della “fine della storia”, una sciocchezza gigantesca. Si fondava sull’idea che, caduto il comunismo, il capitalismo avrebbe potuto semplicemente vivere di rendita, diffondendo benessere e letizia per ogni dove. Non è accaduto questo, la storia ci chiede il conto, ci costringe a rialzarci in piedi con un ceffone, dopo decenni di pigrizia politica e intellettuale».
Ancora sul linguaggio, ti colpisce l’uso di termini che peschiamo da un passato remoto? Non è solo il concetto di “enclave” o “genocidio”. Penso che Putin torna a essere lo “zar” ed Erdogan il “sultano”, come se anche nella lingua fossimo alle prese col morto che afferra il vivo.
«Già ai tempi della guerra in Jugoslavia mi colpiva molto la risorgenza del passato in forme che potevano sembrare incredibili: ci si scannava, alla fine del Novecento, nel nome di battaglie e stragi di cinquecento anni prima. Il morto che afferra il vivo, appunto. Dobbiamo avere rispetto per quel substrato arcaico che chiamiamo radici, che a volte affondano fino a profondità imprevedibili, vedi la resurrezione del fanatismo ortodosso come co-autore del neozarismo di Putin. Ma dobbiamo ritrovare l’energia rivoluzionaria (non trovo altro aggettivo) che serve per mandare al macero tutto il vecchiume reazionario, oppressivo, bigotto che sta dentro il baule della memoria. La memoria è come il colesterolo, c’è quella buona e quella cattiva. Le radici possono anche essere un ricatto. Dobbiamo dire ad alta voce, come quando avevamo diciotto anni: la Patria, la Famiglia, la Religione, la Tradizione, non possono essere la palla al piede che impedisce agli uomini di essere liberi. La libertà prima di tutto vuol dire anche libertà dal passato, no?».
Sì, lo penso anch’io, ma resto al tema. Penso all’ultima scivolata polacca di Salvini. Ne hai scritto parlando di un «buco culturale e ideale» che non è solo suo, ma di una «intera generazione di giovani ambiziosi» che «si è dovuta inventare una fisionomia politica qualunque pur di sembrare muniti di uno scopo che non fosse solo fare carriera». Come ci siamo arrivati? Basta a spiegarlo il fatto che è saltato il criterio della formazione e selezione della classe dirigente?
«I discorsi “di generazione” sono sempre pericolosi, Adolf Hitler e Charlie Chaplin sono nati nello stesso anno… Detto questo, non c’è dubbio che la generazione dei politici quarantenni paga pegno a un doppio handicap. Il primo, come dicevo, è che la politica ha perduto potenza ideale perché ha perduto prospettiva storica. Difficile formarsi una tempra politica forte discutendo per anni sulle variazioni dello 0,3 per cento del rapporto tra Pil e deficit pubblico. Il secondo è che, con l’avvento dei social, l’ossessione dell’applauso e della popolarità rende sempre più difficile pensare, e parlare, al riparo dalla voce della folla. C’è poco da fare, la solitudine è una condizione nella quale spesso maturano le scelte migliori, i pensieri più importanti. Compatisco i Salvini, i Renzi, i Calenda, per dire tre dei più avvinti alla rete, perché non hanno mai un momento per loro stessi». 
Ridurre tutto alle colpe della tv non può assolvere la politica. Il punto è che dietro agli interessi da difendere c’è una gerarchia, con l’economia a dominare sul resto. Tradotto, il peccato della sinistra è stata una subalternità alle ragioni degli altri. La precarietà non l’abbiamo inventata noi, ma l’uso distorto della flessibilità, quella è anche opera nostra. Mi diresti i tre messaggi che useresti per recuperare una quota di sinistra spersa e dispersa?
«Inutile piangere sul latte versato, anche se è grande come un lago. Meglio pensare al futuro. Provo a rispondere. Io ho una specie di ossessione personale, che è il servizio civile di leva, obbligatorio. Meglio se europeo. Credo potrebbe essere un punto strategico, di largo respiro, che avrebbe il pregio di ridefinire anche i parametri culturali di una futura sinistra: ci sono i diritti ma ci sono anche i doveri. E il dovere di servire la propria comunità, abbandonando almeno per sei mesi la dittatura dell’ego che ci ottenebra, mi pare bene espresso da un servizio civile di leva. Secondo punto, riforma fiscale radicale, con semplificazione e riduzione di alcune aliquote, ma obbligo vero di pagare le tasse. L’evasione fiscale, quella vera, quella con dolo, è un furto, e merita la galera, come in America. Terzo, un salario minimo garantito per legge a chi lavora, dunque una rivalutazione economica e anche etica del valore del lavoro. Valore sociale e valore individuale».
In questo anno ricorre anche il ventennale di Tangentopoli, in un’intervista hai detto che una sola pagina di Cuore non rifaresti, quella col fotomontaggio di Craxi in carcere e il titolo “Pensiero Stupendo”. Da lì qualche polemica e accuse di revisionismo, ma il nodo è proprio la logica che santificando i magistrati e “ghigliottinando i corrotti” ha teso ad assolvere il consenso raccolto da chi quel sistema gestiva. Forse è la storia del paese a restituirci questo opportunismo. Tu quel triennio liberatorio e terribile assieme, tra il 1992 e il 1994, lo collocheresti in quel solco?
«Le polemiche su quella mia intervista sono state di totale meschinità, ho fatto malissimo a rispondere al Fatto quotidiano che, per bocca di un suo collaboratore, mi ha messo tra i “pentiti di satira”. Alla mia età non ho ancora imparato che alla parola di bassa lega si risponde con il silenzio, non c’è altra via. Avevo semplicemente detto che un titolo di Cuore, uno soltanto, non lo rifarei, ed era quello che inneggiava all’idea di Craxi in galera. Confermo in pieno il mio giudizio su quella stagione, identico, del resto, al giudizio che ne ho dato anche in quegli anni (carta canta): Tangentopoli è servita a rinforzare l’illusione/alibi del popolo buono e del palazzo cattivo. Il popolo è buono e cattivo tanto quanto chi lo rappresenta, non di più, non di meno. Il trionfo di Putin nei sondaggi recenti dimostra che non esistono una volontà popolare edificante e un potere malvagio che la contraddice. I dittatori hanno sempre dichiarato guerra tra gli osanna della piazza. E i ladri hanno sempre rubato grazie alla vasta convenienza del furto. Poche cose sono più popolari, in Italia, dei comodi propri».
Questo capitolo fa riflettere anche per un altro anniversario, il centenario della nascita di Enrico Berlinguer. All’epoca il commiato di Repubblica scelse come titolo “Straniero in patria” a confermare l’idea che se a morire era una personalità stimata anche dagli avversari, per forza in lui doveva esserci qualcosa di non-italiano. Non fa impressione questa tendenza a denigrarci, salvo esaltare lo slancio di solidarietà di cui il paese è capace quando ha di fronte una emergenza?
«L’anti-italianità è un vezzo culturale molto diffuso e, secondo me, molto puerile. Si inserisce nel grande filone dei “fuori dal coro”, dei “contro corrente”, di quelli che “non la bevono”. Per provocazione mi viene da dire che gli italiani dovrebbero avere il coraggio di essere più conformisti, nel senso di sentirsi più partecipi alla vita civile, più membri di una comunità. L’individualismo narciso è il vero grande vizio nazionale, e solo in questo senso, sì, mi sento anti-italiano. Amo le regole, non amo l’indisciplina. Da ragazzo sono entrato nel Pci perché era un partito di massa, evidentemente lo sentivo, con tutti i suoi difetti, come un antidoto all’italianità corriva degli anticonformisti».
Ti ho chiesto molto sulle parole, ma quale peso hanno acquisito le immagini? Anche nella guerra che stiamo vivendo intendo. Yuval Noah Harari ha scritto che quando alcuni cittadini rimangono seduti davanti ai carri armati russi, lì si scrive la storia di una nazione. Diresti che è così o pensi che oramai viviamo un tempo dove la memoria è solamente quella a breve termine per cui a fine agosto tutti avevano il cuore alle bambine di Kabul ma sei mesi dopo quegli stessi se le sono dimenticate?
«Le immagini sono troppe, le parole troppe, c’è molta difficoltà a selezionare e anche a metabolizzare. Mille foto di una guerra alla fine diventano solo routine. Con un danno aggiuntivo, che l’orgia di emozione spesso è a scapito dello studio e del ragionamento. Così, quando passa l’emozione, non resta più nulla fino alla emozione successiva. Dovremmo imparare a fare silenzio, ogni tanto. Non è teoria, è prassi personale: spegnere tutto e fare una passeggiata da soli, magari ogni giorno, è la migliore cura per non morire di indigestione mediatica».
Come te non so nulla dello stato di salute di Vladimir Putin, ma al netto di questo non pensi che tra marxismo e liberalismo la palma del successo debba andare alla psicanalisi?
«Giustissimo. Più in generale, e te lo dico facendo le pulci alla mia formazione marxista, abbiamo trascurato di interrogarci sulla natura umana come agente determinante della nostra storia. Ci sono atti, nel bene e nel male, che la struttura economica non spiega se non in parte. Per esempio: l’impulso a consumare e a desiderare all’infinito, con la conseguente insoddisfazione perpetua che rende così precario l’umore nelle società del benessere, è tipicamente materia da psicoanalisti. Quanto a Putin, che sia pazzo o no è certamente determinante: ma come stanno i suoi sudditi, e perché lo applaudono, è ugualmente determinante».
Nell’ultima intervista di Enrico Berlinguer a Mixer, Giovanni Minoli gli chiese chi fosse il migliore giornalista italiano e la risposta fu Luigi Pintor, per chi conosce la storia di quel partito una gran bella risposta. Azzardo: chi è il migliore o la migliore giornalista oggi in Italia?
«È qualcuno che non conosco. Che scrive in rete, per pochi soldi, cose che ha visto e capito prima degli altri. Comunque, per non dare l’idea che non voglio fare nomi, trovo eccellente una parte del giornalismo radiofonico di approfondimento su Radiorai, ultima trincea di quella che fu una grandissima azienda culturale di massa. Ascolto sempre volentieri Giorgio Zanchini e Giancarlo Loquenzi, trovo eccellente anche la leggerezza educata e intelligente di Marianna Aprile e Luca Bottura su Radiouno, nel loro programma Forrest. È un giornalismo di servizio, non vanitoso, documentato. Non sopporto più invece il giornalismo saccente della mia generazione, del quale, nei momenti di cattivo umore, temo di essere un rappresentante. Facciano il salto di qualità implicito, diventino scrittori. Finché si sfidano su Twitter, a sessant’anni, sono patetici. Se si sentono “grandi firme”, scrivano Guerra e pace oppure progettino una meritata pensione. È anche quello che penso di me stesso, sia chiaro».
Abbiamo ricordato il solo titolo di Cuore che non rifaresti. Ma se lunedì uscisse un numero speciale di quell’inserto che titolo faresti?
«Ucraini e russi, vicini di casa se non coabitanti da secoli, mi sembrano la versione tragica, biblica, della faida da burla tra pisani e livornesi. Dunque chiederei asilo politico al Vernacoliere».
Sai, devo a Cuore la presa d’atto che il Pci andava verso la fine. Accadde in una riunione della direzione a cui partecipavo come segretario della Fgci. Si alzò un dirigente e disse che la settimana precedente il segretario Occhetto aveva incontrato i leader di tre piccoli partiti comunisti del nord Europa. Capiva come non fosse una notizia di rilievo, ma trovava grave che l’organo del partito l’avesse ignorata dandone conto solo nell’inserto Cuore alla rubrica “Chi se ne frega”! In quel momento (anche alla luce del fatto che nessuno scoppiò a ridere) credo di avere colto i segni di una crisi irreversibile. Mi dici cosa è stato per te il Pci?
«Non sapevo che Cuore avesse questo merito storico. Quanto al Pci, provo a fare una sintesi: per me, figlio della borghesia liberale, il Pci è stato una seconda educazione, quella sociale, nonché una seconda famiglia. Ho un debito di gratitudine infinito per chi mi insegnò il mestiere all’Unità, e in generale con il partito che mi costrinse a mettere in secondo piano le mie fisime, a conoscere la società e a confrontarmi con essa. Se c’è una colpa che considero davvero imperdonabile, forse la più grave in assoluto, è l’ingratitudine nei confronti di chi ti ha dato qualcosa, insegnato qualcosa. Dunque, se mi chiedi i difetti dei comunisti italiani, che furono molti, e gravi, te li dirò la prossima volta».
Hai portato “L’Amaca”, la tua rubrica su Repubblica a teatro, e dai conto di un’opinione al giorno per ventisette anni, il che fa circa 8mila opinioni. Non ti chiedo quanto sia difficile avere un’opinione a ogni santa alba. Ti chiedo dopo ventisette anni qual è la percentuale di quelle opinioni che le albe venute dopo ti hanno fatto cambiare?
«È una percentuale bassa. Questo può volere dire due cose: che lungo la mia vita sono stato piuttosto coerente, ed è un grande pregio. La seconda cosa: lungo la mia vita sono stato piuttosto coerente, ed è un grande difetto»