il Fatto Quotidiano, 6 aprile 2022
Un dialogo tra Wim Wenders e Jean-Luc Godard
Anticipiamo stralci della conversazione tra Wenders e Godard pubblicata nel 1990 e raccolta ne “L’atto di vedere”, in uscita con Meltemi il 21 aprile.
Wenders: Credo che sia il momento di fumarci un sigaro.
Godard: Prego, prendine uno dei miei.
W: Il mio ultimo sigaro l’ho fumato a San Diego, tanto tempo fa, e sempre assieme a te.
G: Quando ci siamo visti l’ultima volta?
W: Credo alla prima di Detective. Poi ci siamo incrociati davanti a una delle lobby alberghiere.
G: Già, le lobby.
W: Jean-Luc, ho visto Nouvelle Vague e mi sembra che tu stia diventando un pittore, i tuoi film si trasformano sempre più in composizioni pittoriche…
G: Sì. Sto pensando di mettere all’asta da Christie’s il mio prossimo film, anziché farlo proiettare nelle sale…
W: Per me, la scoperta del cinema è coincisa in buona parte con quella dei tuoi film. Vivevo a Parigi quando fu proiettato il tuo Una storia americana, andai alla prima proiezione, a mezzogiorno, e rimasi in sala fino a mezzanotte. Un tempo si poteva restare in sala quanto si voleva… Una storia americana lo vidi sei volte di seguito.
G: Non te lo sei meritato.
W: Era anche inverno, faceva piuttosto freddo fuori.
G: Ora capisco.
W: Si trattò per me di un’esperienza emozionante assistere sei volte di seguito all’identico film, e vedere ogni volta un film diverso. È questo il lato straordinario del tuo cinema, stimolare lo spettatore a seguire le tue invenzioni, con gli occhi di un bambino, e scoprire al contempo me stesso.
G: Sì, è positivo che il cinema produca questo genere di reazioni. Dietro al film bisogna sentire la presenza di un regista che ama il proprio lavoro. Senza questo amore non si inventa nulla, ci si irrigidisce, si muore… Credo che la maggior parte della gente ami il proprio lavoro, anche nelle fabbriche e negli uffici la situazione: la maggior parte degli americani apprezza il proprio lavoro, se è ben pagato. E questo vale addirittura per i soldati, che amano la guerra. È tremendo per loro aspettare. Ma appena si spara il primo colpo di cannone sono contenti. Penso che perfino nei campi di concentramento chi picchiava lo faceva con piacere. Hollywood ama… il successo.
W: È stato molto difficile, per me, lavorare a Hollywood.
G: Per me sarebbe impossibile… Io ho sempre realizzato film con magri bilanci. Ma anche con dieci franchi, bisogna comunque cercare di realizzare un film. Da Rossellini ho imparato una sorta di rispetto per la metafora artistica del denaro. Il budget è un buon punto fermo per la creatività: se i soldi sono troppi si centra il bersaglio sbagliato, quando sono troppo pochi, si rischia di non centrare niente… Ricordo che, il primo giorno di riprese di Fino all’ultimo respiro, cominciammo a lavorare alle otto di mattina, alle dieci avevamo finito e andammo in un caffè. Arrivò il produttore e vedendoci seduti al tavolino ci domandò sconvolto: “Perché non girate?”. Io risposi che avevamo finito, e lui: “Allora, perché non girate le scene di domani?”. E io: “Non so affatto cosa gireremo domani”…
W: Il mio film Fino alla fine del mondo è diventato più lungo che mai. Se lo realizzassi come m’ero riproposto durerebbe almeno cinque ore.
G: Fanne allora due parti, come Via col vento, o realizza una serie. Mi piacciono le serie, anche le peggiori, perfino Dallas, semplicemente perché utilizzano una tecnica di intensificazione. Noi ci siamo abituati alla velocità della televisione, che ha ridotto i tempi dell’immagine come avviene in pubblicità. Io credo che oggi bisogna decidersi tra il realizzare un lungo film – e allora dev’essere davvero di 6, 7, 8 ore – oppure farlo breve, ma che lo sia radicalmente. Il nuovo film di David Lynch, Cuore selvaggio, dovrebbe durare dieci minuti, e sarebbe un buon film.
W: La mezza misura è una delle premesse per il successo di massa.
G: Io non ho alcuna voglia di pensare allo stesso modo, che so, di Spielberg, benché in effetti lo ammiri per il suo fiuto. Se realizza un film per 20.280.418 spettatori, stai certo che non avrà sbagliato i conti di due spettatori in più o in meno. Ma io non la penso come lui, e del resto non sopporto la folla. Non vado in metropolitana quando è piena, e dal panettiere non mi piace fare la fila. Come potrei volere che il cinema si riempia di gente?
W: Monti tu stesso le tue pellicole?
G: Sì, è il momento più bello di un film, anche il più solitario. Le riprese, ad esempio, sono un lavoro che detesto.
W: Anch’io le odio…
G: Come vorrei che la troupe potesse girare senza di me! Credo che l’unico lavoro creativo avvenga in sala di montaggio. Mi rammento di un problema con la scena finale di Nouvelle Vague. Delon era terribilmente scadente e provai di tutto: tagliare, accorciare… Improvvisamente mi venne l’idea di togliere il sonoro in presa diretta e inserii una sonata di Hindemith. Tutt’a un tratto, la scena era magnifica… Mentre mi trovo in montaggio, ho in mente l’intero sonoro, e quando scelgo un suono particolare, monto la scena e butto il resto nella spazzatura.
W: Nella spazzatura?
G: In uno o due casi m’è toccato rovistare il giorno dopo nel bidone dell’immondizia, prima dell’arrivo della nettezza urbana. Ma è successo molto, molto raramente.