Corriere della Sera, 5 aprile 2022
La chiesa maschilista
Nel giugno del 2002, a Passau, in Baviera, il vescovo argentino Romulo Antonio Braschi, fondatore nel 1975 di una Chiesa cattolica indipendente, conferì l’ordine sacerdotale a sette donne cattoliche. In luglio la Congregazione per la dottrina della fede, prefetto il cardinale Joseph Ratzinger, invalidò l’ordinazione condannandola come «un grave delitto contro la divina costituzione della Chiesa». Poi ammonì le «sacerdotesse» avvertendole che, se non si fossero dichiarate pentite chiedendo perdono per lo «scandalo» causato tra i fedeli, sarebbero incorse nella scomunica. Le «ordinate» risposero al futuro Papa Benedetto XVI accusando a loro volta la Chiesa di «dare scandalo» per come discriminava le donne. E chiesero un incontro a Papa Giovanni Paolo II proponendogli di studiare il modo per modificare il diritto canonico nella parte in cui si vieta al genere femminile di ricevere gli ordini sacri. Papa Wojtyla non le ricevette e a dicembre furono scomunicate tutte e sette. Trascorsero altri sei mesi e, nel 2003, due di loro, la teologa Gisela Forster e l’ex suora benedettina Christine Mayr-Lumetzberger, fecero sapere di aver ricevuto, il 27 giugno di quell’anno, l’ordinazione episcopale da parte di vescovi cattolici dei quali non hanno rivelato i nomi. E che, forti di tale ordinazione, avevano consacrato altre donne. Braschi, nel frattempo, era stato bollato dalla Chiesa come «episcopus vagans».
In ordine di tempo Forster e Mayr-Lumetzberger sono le ultime protagoniste dell’assai interessante libro di Adriana Valerio Eretiche. Donne che riflettono, osano, resistono che esce per il Mulino il 7 aprile. Donne che nei secoli sono state punite, appunto, per aver riflettuto, osato e resistito. Nel giugno del 1310 venne data alle fiamme una giovane filosofa, la «beghina» di Valenciennes Margherita Porete. Venne bruciata assieme al suo libro Lo specchio delle anime semplici giudicato eretico. Quantomeno in alcune sue parti. L’inquisitore francese che la sottopose a processo, il domenicano Guillaume Humbert, le concesse una via per sottrarsi alla morte: avrebbe dovuto pentirsi. Ma la Porete fu irremovibile e in conseguenza di ciò fu mandata al rogo. Rogo che avrebbe dovuto cancellare la memoria della donna e del suo scritto. Ma alcuni esemplari dello Specchio circolarono, anonimi, in Europa. Uno venne ritrovato dalla studiosa Romana Guarnieri sei secoli dopo, nel 1946. La Guarnieri non solo lo riportò alla luce, ma riuscì anche a ricostruirne la storia.
Nel 1524 fu processata dall’Inquisizione di Toledo (e condannata all’ergastolo) la mistica Isabel de la Cruz. A metà del Seicento, su disposizione dell’arcivescovo di Parigi, furono deportate le suore gianseniste di Port Royal. Nel 1912 l’opera della «teologhessa inquieta» Antonietta Giacomelli – volta a sollecitare una riforma liturgica nella Chiesa – fu messa all’indice dei libri proibiti. Tutte queste donne, in compagnia di moltissime altre, furono considerate eretiche, nemiche della fede. A partire dal periodo tra il II e il III secolo, in cui con Giustino, Ireneo di Lione, Tertulliano di Cartagine e Ippolito da Roma vennero messi a punto i concetti di ortodossia e di eresia. Per poi indicare quali testi andassero inclusi nel canone delle Scritture e quali andavano messi al bando per evitare che inducessero a «esperienze disgregatrici». E dal momento che gli autori dei testi considerati canonici erano uomini, «il genere femminile», osserva Valerio, «ha subìto i criteri normativi elaborati da gruppi di potere generalmente gestiti da maschi».
Prima che ciò accadesse, avevano fatto in tempo a manifestarsi, nel II secolo, le profetesse di Frigia – Massimilla, Priscilla, Quintilla – che provenivano dal «montanismo» così definito dal nome del fondatore, Montano. Queste donne «con il loro carisma, erano riuscite a raccogliere seguaci e a comunicare una visione apocalittica quanto mai suggestiva». Contro di loro si scagliò il già citato Ippolito, che accusò i seguaci di Montano di «essersi lasciati sedurre da femminette», e di aver avuto l’ardire di asserire che in quelle «donnicciole» c’era «il meglio» di quanto si potesse «trovare in Cristo». Maria Dell’Isola ha ben ricostruito l’intera vicenda in L’ultima profezia. La crisi montanista nel cristianesimo antico (Il Pozzo di Giacobbe). Il Cristo di queste profetesse avrebbe potuto essere addirittura all’origine della loro eresia. Per certi versi simile a quello che si ritroverà nella Leggenda del grande inquisitore (un capitolo dei Fratelli Karamazov di Fëdor Dostoevskij) dove Gesù, tornato sulla terra quindici secoli dopo la sua morte, viene imprigionato proprio come eretico. Nella Chiesa, forse anche per questo, ebbe la meglio l’anatema di Ippolito. E, a molti decenni dalla loro scomparsa, nel 550 si consumò la sconfitta postuma di quelle «donnicciole». All’epoca era Papa Vigilio, pesantemente strattonato dall’imperatore Giustiniano. Fu allora che, nel corso di un’azione di rappresaglia complessiva contro gli eretici, i testi delle profetesse frigie vennero dati alle fiamme.
Il cristianesimo, riconosciuto come religione dell’impero nell’editto di Tessalonica del 380, aveva aperto una strada «di netta opposizione nei confronti delle correnti ritenute eretiche», scrive Adriana Valerio; correnti «considerate non “conformi all’insegnamento apostolico” del quale la Grande Chiesa, cattolica e ortodossa, si faceva garante». Ne fu vittima illustre una matematica, astronoma e maestra autorevole della scuola platonica di Alessandria d’Egitto, di cui ha scritto Silvia Ronchey in Ipazia. La vera storia (Rizzoli). Ipazia fu «brutalmente assassinata» nel 415 su istigazione del vescovo Cirillo, teologo «difensore della fede», «non esente da violenze e intolleranze nei confronti di ebrei e comunità eterodosse». Potrebbe forse questa storia essere circoscritta alla lotta al paganesimo o al nemico di turno da distruggere. Non è così, sostiene Adriana Valerio. La storia di Ipazia «manifesta, piuttosto, l’insofferenza per il prestigio culturale di una donna che insegnava in luoghi pubblici – davanti ai templi pagani demoliti dalla nuova religione – per la sua libertà di pensiero e per quella sapienza femminile non disposta a sottomettersi al potere istituzionale maschile».
Va poi considerata la strana storia di un Papa donna, che sarebbe succeduta nel 855 a Leone IV e sarebbe rimasta sul trono pontificio per due anni e mezzo. L’ha ricostruita Alain Boureau in La papessa Giovanna. Storia di una leggenda medievale (Einaudi). Questa storia fu messa in circolazione alla fine del XIII secolo da due domenicani: prima Giovanni di Mailly e qualche anno dopo Martino Polono. Secondo quest’ultimo si trattava di una donna di grande reputazione tant’è che era stata eletta Papa all’unanimità; durante il pontificato fu poi messa incinta da un suo familiare e partorì all’improvviso mentre si dirigeva da San Pietro in Laterano. Il figlio sarebbe venuto alla luce in un luogo tra il Colosseo e la Chiesa di San Clemente dove poi sarebbe stata sepolta. All’esistenza di quel pontefice donna mostrò di credere Boccaccio. E moltissimi altri come ben ricostruisce Agostino Paravicini Bagliani in La papessa Giovanna. I testi della leggenda (Edizioni del Galluzzo). Ancora intorno al 1400 nel duomo di Siena era esposto, assieme ai ritratti dei papi, un busto della papessa. Che fu rimosso soltanto due secoli dopo su disposizione di Papa Clemente VIII (1592-1605). Duecento anni dopo.
Il cardinal Gianfranco Ravasi (presidente del Pontificio consiglio della cultura), a proposito del libro di Paravicini Bagliani, ha ribadito che si tratta di una storia leggendaria «inchiodata ancora nella mente di taluni un po’ sprovveduti come una sorta di monito per il tema del sacerdozio femminile». Adriana Valerio si spinge più in là e considera questo racconto nel suo insieme come un «avvertimento» contro la pretesa femminile di esercitare un potere nella Chiesa.
Le protagoniste a cui ha dedicato attenzione Adriana Valerio sono state oggetto di una denigrazione sistematica. Tutte. A cominciare da Teodora e Marozia del casato dei Teofilatti, che nella prima metà del X secolo ebbero grande influenza sulla vita politica romana e soprattutto sul papato, orientandone le elezioni a vantaggio dei propri figli. Lo storico Liutprando di Cremona, vescovo nonché loro avversario politico, non esitò a farne «una descrizione infamante» ricorrendo ai temi assai abusati dell’adulterio e della lussuria. Solo «per infangarne la memoria». Rendere ridicoli, calunniare, screditare, diffamare, disonorare sono «alcune armi usate per mettere a tacere esperienze, richieste, aspirazioni, provocazioni». Solo adesso si comincia, anche dall’interno della Chiesa, a guardare a cosa è rimasto sepolto sotto queste montagne di diffamazioni.
Va presa in considerazione per prima la storia delle «beghine» apparse nei Paesi Bassi alla fine del 1100 e diffusesi rapidamente soprattutto in Renania, Provenza nonché nell’Italia centro-settentrionale. L’etimologia del termine «beghina» è incerta, alcuni la fanno risalire all’antico sassone beggem, che sta per «pregare». Le descrisse Gilberto di Tournai ai vescovi riuniti nel Concilio di Lione (1274) definendole «mulierculae» (donnette) raccontando che «si fanno notare per la loro sottigliezza e apertura verso le novità». Niente di pericoloso, non fosse che, spiegava Gilberto, parlano dei misteri delle Scritture «nel comune idioma gallico». Quei misteri fino ad allora erano «appena accessibili agli specialisti della Scrittura stessa». Esse parlavano di questi segreti contenuti nelle Scritture. E ne parlavano «in pubblico, senza rispetto, nelle conventicole, nelle piazze». Ottenendo da questa loro attività un potere immenso. Per questo andavano stroncate. Se ne occupò il Concilio di Vienne (1311), che si tenne in Francia a ridosso della fine del processo contro Margherita Porete e le condannò.
Singolare è la storia di Guglielma di Milano, donna di ceto sociale elevato animatrice dei «filii Spiritus sanctii», che morì verso la fine del XIII secolo (tra il 1281 e il 1282). A ridosso della scomparsa, la sua tomba divenne luogo di preghiere e di incontri, i monaci accoglievano i numerosi pellegrini con prediche e feste celebrative per promuoverne il culto. Ma nel clima nuovo di inizio Trecento contro di lei e i suoi discepoli fu aperto un processo. Talché nel giro di pochi anni da santa diventò eretica. Un percorso inverso a quello che nel 1431 avrebbe iniziato a fare Giovanna d’Arco. Poi, in età moderna, nessuna donna inquisita fu considerata iniziatrice di un movimento ereticale o portatrice di un pensiero teologico alternativo. Questo spiega perché quando, in piena Controriforma, il cardinale Roberto Bellarmino compilò nel 1586 il catalogo delle eresie, non annotò alcuna donna ma solo eresiarchi maschi. A dispetto di ciò il numero di donne ribelli alla Chiesa nei quattro secoli successivi andò aumentando.
Per questo Adriana Valerio polemizza – delicatamente – con l’«impegnativo volume» di Marcello Craveri L’eresia. Dagli gnostici a Lefebvre il lato oscuro del cristianesimo (Mondadori), «dove le esperienze femminili sono appena annotate». Manca ancora, scrive la studiosa, «un’approfondita indagine storiografica su quelle donne messe al bando o condannate come deviate, eretiche, streghe, sovversive isteriche e altro a seconda di come sono state stigmatizzate nelle varie epoche storiche». L’autrice salva solo Donne e Inquisizione a cura di Marina Caffiero e Alessia Lirosi (Edizioni di Storia e Letteratura). Ma la questione di fondo è ancor oggi «che i detentori dell’ortodossia e gli autori dei testi considerati canonici sono stati uomini». Il genere femminile ha «subìto i criteri normativi elaborati da gruppi di potere generalmente gestiti dai maschi». E ciò che questa circostanza ha determinato non è ancora stato neppure scalfito.