Corriere della Sera, 5 aprile 2022
Biografia di Riccardo Milani raccontata da lui stesso
Alla fine, Riccardo Milani mi dirà: «Faccio commedie per disperazione». Da dieci anni, sbanca i botteghini con film di culto, tipo Benvenuto presidente o Come un gatto in tangenziale e ora con Corro da te. Molti, scritti con la moglie Paola Cortellesi. E fa serie tv irriverenti e divertenti, campioni di ascolto come Tutti pazzi per amore. Cominciò da assistente volontario di Mario Monicelli e, come lui, sa far ridere di cose amare.
«Fare commedia per disperazione» non è un controsenso?
«Racconto l’Italia che non mi piace, con passione però, perché amo questo Paese. Al cinema amo sentire la gente ridere e quando si riesce a far ridere e anche a far alzare un po’ la testa si fa un’operazione importante. Da regista non ho mai avuto il piacere di appartenere a una cerchia ristretta di cineasti e intellettuali. Preferisco rivolgermi a un pubblico largo, raccontare a chi non la pensa come me, magari storie di persone normali che nel quotidiano fanno cose orribili».
Cose orribili di che tipo?
«In auto, ti fanno i fari per avvisare che c’è l’autovelox: segno di un Paese che si compatta contro la legge, come se c’è da evadere le tasse, saltare file, non denunciare le prepotenze».
Lei invece denuncia, interviene?
«Cerco di parlare con le persone, se si fermano, se non tirano fuori la spranga. Ho visto uno aprire il portabagagli, prendere una mazza da baseball e frantumare un parabrezza: è una scena vera, messa in Un gatto in tangenziale».
Nella disperazione, è ottimista o pessimista?
«Ho sempre la speranza che il Paese sia migliore di quello che racconto e a volte sono troppo ottimista. Ho avuto scontri con gli sceneggiatori. Per Scusate se esisto!, in cui Paola è un’architetta che si finge uomo per poter lavorare, dissi: non è che raccontiamo un Paese che non c’è più? Furio Andreotti, Giulia Calenda e Paola hanno dovuto convincermi, cifre alla mano, della disparità delle donne nel mondo del lavoro».
Dunque, il macho predatore Pierfrancesco Favino in «Corro da te» esiste ancora?
«Io quelli come lui non li frequento, il dubbio l’avevo. Poi, guardi le violenze subite dalle donne a Capodanno a Milano, vedi il branco fatto da giovani e capisci che il cinquantenne del film non è anacronistico».
Come nel film, è l’amore il motore del cambiamento?
«Favino conosce Miriam Leone, una ragazza in sedia a rotelle, che sa fare bene tante cose pur godendo di metà della sua condizione, e scatta l’ammirazione: per questo s’innamora».
Dentro c’è l’ultima interpretazione di Piera Degli Esposti, mancata l’agosto scorso.
«Insieme abbiamo lavorato tanto. Le feci ballare Beyonce in Tutti pazzi per amore. Ci volevamo bene, veniva sempre a Pescasseroli da Dacia Maraini, anche io ho casa lì. Le portavo le zucchine dell’orto, lei raccontava barzellette meravigliose. Negli ultimi tempi, aveva due tubicini al naso per l’ossigeno e mi fa: secondo te, posso fare l’attrice così? Le risposi: sei Piera degli Esposti, puoi fare quello che vuoi. Scrissi per lei, in Corro da te, il ruolo della nonna cinica che mette al muro Favino».
Si sta commuovendo.
«Le ho visto fare una cosa straordinaria. Poteva recitare solo seduta, coi suoi tubicini, ma c’è una scena in cui tutti ballano e, quando ho dato motore, lei all’improvviso si è alzata e ha ballato. Questo è avere mestiere e amare quel mestiere».
A lei come arriva la passione per il mestiere?
«Sono nato a Roma, in via Segesta, sopra il Cinema Airone. A due anni, mi affacciavo a una grata pericolosissima per sentire le voci dei film. Captavo dialoghi, urla di indiani e cowboy. I miei avevano lavori modesti, ma vicino a casa c’era la Scalera Film. Papà iniziò a fare la comparsa e a bazzicare l’ambiente come autista e tuttofare, poi diventò ispettore di produzione. Conobbe Alberto Sordi, portò a casa i dentoni finti di un suo film e portò me bambino a casa sua».
Il suo primo set?
«Lessi che Carlo Vanzina aveva iniziato come assistente volontario: pur essendo figlio del grande Steno, non era partito come aiuto regista. Allora andai a bussare al camper di Monicelli e mi proposi come assistente volontario. Dopo mesi, mi prese per Speriamo che sia femmina. Andai, lui non dava indicazioni su nulla, dovevi renderti utile in qualunque modo, portando il caffè, fermando il traffico, aiutando macchinisti, elettricisti».
Primo giorno di lavoro non pagato?
«Ressi il parasole sulla testa di Catherine Deneuve, era estate, mi squagliai perché faceva tanto caldo e perché stavo vicino a Deneuve. Avevo una visione del cinema artistica, teorica, invece sul set ho imparato che il cinema è artigianato. Andavo a casa di Suso Cecchi d’Amico a prendere le correzioni della sceneggiatura: per me era una divinità, ma lei, Monicelli, Piero De Bernardi, tutti grandissimi, stavano lì coi foglietti a dire “sta’ cosa funziona? Ma fa ridere? Fa ridere?”. La loro preoccupazione era questa».
Fra i suoi film, ce n’è soltanto uno drammatico, «Piano, solo», perché?
«Perché è la storia vera del tormento di un ragazzo, Luca Varchi, un musicista importante morto suicida. In adolescenza la fragilità è padrona, io me ne portavo dietro un po’. Verso i 16, 17 anni, frequentavo un centro sociale, aiutavamo le periferie. Uno di noi era morto, fu un dolore che faceva pensare anche al suicidio. Il male di vivere ci ha attraversato molto in quegli anni. Un contributo doloroso è stato il terrorismo».
Quanto l’ha vissuto da vicino?
«Ero attivo politicamente, siamo intorno al ‘76 o ’77, anni in cui, a furia di andare a sinistra, il purismo portava distorsioni pesanti. La strada del dialogo era la meno percorsa e forse la più utile. Mi addolorava vedere quanta responsabilità ci si è presi a non combattere la violenza dall’interno, a non dire a chi uccideva che diventava un assassino. È una stagione che ricordo con grande senso di inadeguatezza».
Quando, per esempio, avrebbe dovuto parlare e non l’ha fatto?
«A un corteo, alcuni si staccarono per spaccare le vetrine di un’armeria e prendere i fucili. Ero piccolo ed era tutto più grande di me. Ma una cosa spero di non aver perso: la spinta a capire quali siano le cose giuste e a non girare la testa».
Il suo primo grande successo è «Benvenuto presidente» con Claudio Bisio, dove riesce a far ridere della malapolitica.
«Anche lì, ero incerto sul tema: c’era già il soggetto e mi faceva soffrire che fosse centrato sull’idea che il Parlamento fosse una fogna e che chiunque sarebbe stato meglio di un politico, anche un pescatore eletto presidente della Repubblica perché tutti votano per sfregio Giuseppe Garibaldi e un Giuseppe Garibaldi esiste davvero».
Era il 2013, l’anno in cui i 5 Stelle entrano in Parlamento per aprirlo «come una scatoletta di tonno».
«Era lo stesso Parlamento nato dalla lotta partigiana, per il quale persone avevano combattuto ed erano morte. Ma è importante il discorso finale di Claudio Bisio, quando si rivolge a chi accusa i politici, ma poi evade le tasse, paga in nero...».
Prossimi film?
«Ho finito di girare un remake dal francese Triomphe, protagonista Antonio Albanese, e sto ultimando un docufilm sul gigante Gigi Riva, ci ho messo vent’anni a farmi dire di sì. Mi appassiona la storia di un uomo che ha detto no alle leggi del mercato. Lo volevano la Juve, l’Inter, tutti, e lui ha sempre giocato nel Cagliari».
Il gatto in tangenziale come nasce?
«Il primo fidanzatino di una delle tre mie figlie era proprio di Bastogi e io ho reagito come reagirà Antonio Albanese nel film: ho seguito l’autobus su cui saliva mia figlia, sono andato a conoscere la famiglia. Anche loro si chiedevano che ci facesse lì la figlia di un regista. Poi, ho usata la casa del ragazzo come set del film».
Che le periferie le entrassero in casa doveva capitare proprio a lei che aveva lottato per le periferie?
«Quel film è una confessione di ipocrisia. Come padre, ho messo in campo il peggio di me».
Ha due figlie grandi e una, di nove anni, avuta con Paola Cortellesi. Che padre è?
«Non lo so, uno che cerca di dare l’esempio».
Il primo incontro con Paola?
«Per Il posto dell’anima volevo una protagonista forte, che parte dal paesino per cercare lavoro. Era un film più drammatico di altri e mi serviva uno sguardo anche malinconico. L’avevo vista fare cose divertenti in tv, ma sentivo in lei qualcosa di amaro. L’ho voluta incontrare».
Sua moglie la racconta in modo diverso.
«In effetti, la vidi a casa di Gianni Morandi, faceva le prove di uno spettacolo in giardino. Aveva i sandali, arrivò sudata, coi piedi sporchi di terra. Finge di arrabbiarsi se lo racconto».
Quindi, quando vi guardate con occhi nuovi?
«Mesi dopo il set. Capendo che ci accomunavano lo stesso distacco per le cose, lo stesso amore per la commedia un po’ amara e il fatto di non uscire mai, non essere mondani. Ci siamo trovati su cose semplici».
Quasi vent’anni insieme e sette film. Paola ha detto: «Quando scriviamo una sceneggiatura, siamo a un passo dal divorzio perché litighiamo pure sulle virgole».
«Un po’ è vero. Gli altri due sceneggiatori dicono che sembriamo Casa Vianello».
E la vostra vita di cose semplici com’è fatta?
«Stiamo molto a casa, andiamo molto al cinema e a Pescasseroli. Io sto bene nella natura. Mi piace cercare di avvistare orsi, lupi, cervi».
Scorgere un orso nel bosco è il suo momento perfetto?
«Lo è anche vedere gli esseri umani felici, quando hanno una loro identità e non sono solo schiacciati da quella di consumatori. Questo mi dà un’idea di libertà».