la Repubblica, 5 aprile 2022
Pinocchio resta per sempre nell’inconscio
Nella sala d’aspetto del mio studio ci sono parecchi libri, uno di questi è Le avventure di Pinocchio. Me lo regalò vent’anni fa una paziente che si era identificata nella storia del burattino. Nel racconto di Collodi, che definiva un viaggio verso l’umanizzazione, rivedeva la sua vita: mamma sconosciuta, papà premuroso ma pretenzioso, cattive compagnie, zio maltrattante stile Mangiafuoco e un corso professionale tardivo che, spero complice la terapia, la aiutò a rimettersi in carreggiata. Un giovane paziente sogna di essere a cena con degli amici e di accorgersi con imbarazzo che il suo naso sta cambiando forma. La sua prima associazione è prevedibilmente Pinocchio, la seconda riguarda il disagio che prova nelle situazioni sociali, il sentirsi sempre così «legnoso». Anche se scritto 140 anni fa, nelle analisi di oggi il burattino è ancora oggetto di sogni e pensieri. Come mai Pinocchio è ancora così presente nei nostri inconsci? Perché rappresenta un prodigio narrativo, una storia piena di porte d’ingresso, una vera «enciclopedia fiabesca», come ha scritto Maurizio Bettini in queste pagine, dove inconscio personale e collettivo, individuazione e cultura popolare, si intrecciano attivando immagini mentali. A questo aggiungerei la presenza immaginifica degli animali (non sto a elencarli, li conosciamo fin dall’infanzia): quelli che Matteo Garrone, nel suoPinocchio, ha ben ricostruito con gli effetti speciali del sogno. Infine, Pinocchio ha preso dimora nei nostri inconsci per la centralità di alcuni elementi narrativi: quello metamorfico, che apparenta Collodi a Ovidio e Apuleio, quello iniziatico, che si esprime nel motivo junghiano del viaggio dell’eroe,quello biblico, Pinocchio come Giona nel ventre di una balena. Più di Peter Pan o di Biancaneve, Pinocchio ha un posto d’onore nella psiche perché è fatto di psiche e anima mundi, è contemporaneamente umano, animale, vegetale e oltremondano.
Per prendere la difesa non tanto del burattino quanto della portata mitopoietica del suo romanzo, ho alcune briscole da giocare nell’appassionante partita con Aurelio Picca. Ne butto giù tre: Carmelo Bene e il suo pestifero linguistico Pinocchio, Roland Topor e il suo Pinocchio subdolamente simbolico («Adoro questo burattino, personaggio letterario moderno, attuale, vero, con le sue curiosità, le sue viltà. E quel naso non sembra un pene, il simbolo della crisi del maschio?»), ma sopra tutti Federico Fellini e il suo Casanova burattinizzato (pure lui finisce nella balena, che ovviamente non può che essere la “Grande Mouna”), altra grande maschera nazionale. In uno dei suoi celebri disegni, Fellini ritrae Casanova e annota: «dovrebbe ricordare Pinocchio». Se questi geni del fantastico (per non parlare di Disney o Comencini, passando per il Burattino senza fili di Bennato e persino per il suo contrario iconico cinquettiano Carissimo Pinocchio) si sono dedicati a Pinocchio, non riesco proprio a dire, con Picca (che mi ribalta con i suoi fendenti, ma noi sappiamo che non parla del bugiardello ma di sé) che «Pinocchio è un libro tomba, una bara carbonizzata». Per me è il contrario, Pinocchio è movimento continuo in realtà mutanti, potenza psichica e immaginale, corpo plurale postmodernissimo e persino cyborg: piedi carbonizzati e ricostruiti, orecchie d’asino, naso mutante. Addirittura il figlio di una tecno-paternità non tradizionale, certamente non etero. Ma anche il figlio di un sognatore infantile che vuole un burattino con cui girare il mondo, che per lui «deve ballare, tirar di scherma e fare i salti mortali» (poi ci si stupisce se, con queste aspettative, uno diventa antisociale). È inutile prendersela col finale “edificante”, anzi è interessante che Collodi ne abbia sfornati due, di finali, quello gotico delle puntate e quello per bene del volume. Il fatto che Don Giovanni finisca all’inferno ci impedisce forse di cogliere, anzi privilegiare, il dissoluto libertino, narciso e manipolatore, deus ex machina di tutto l’eros che risuona nel capolavoro di Mozart e Da Ponte? Legherei piuttosto l’esistenza dei due finali alla domanda iniziale sulla tenuta inconscia di Pinocchio, perché credo che un motivo sia anche che lui è contemporaneamente il bambino e il burattino, la realtà e la fantasia, il perdersi e l’individuarsi. Giustamente Adelphi scelse come copertina del “libro parallelo” di Manganelli un’illustrazione di Mussino del 1911 che mostra bambino e burattino esausti e abbracciati.
Le avventure di Pinocchio non è solo la fiaba del suo protagonista, ma un’instancabile giostra di personaggi, enigmi e funzioni mentali: dal petulante Super-io del Grillo al godimento amorale di Lucignolo. Come scrive Manganelli, quello di Collodi è un libro indiziario, euforico e terrificante; un libro di tracce, enigmi e fughe. Un libro dove lo «sconcerto è essenziale».
Concludo con un pensiero su Geppetto e il suo viaggio al contrario: più Pinocchio si fa figlio, più lui si fa padre. Il loro viaggio destinale si compie nell’incontro con ciò che a entrambi è mancato: il mondo materno, magico e buono nella Fata Turchina, divorante e abissale nel pescecane balena. Da quest’ultimo saranno finalmente partoriti insieme e insieme riforniti dell’unico dono necessario per crescere: la capacità di prendersi cura di sé e dell’altro. Improvvisamente mi viene in mente l’apparizione di Pinocchio nelle pagine di Paul Auster, L’invenzione della solitudine.
Scrivendo della morte del padre, Auster riscopre il Pinocchio dell’infanzia e osserva che Geppetto diventa veramente padre quando viene salvato dal figlio (nel ventre del pescecane). Perché, dice Auster, per diventare grandi dobbiamo immergerci nelle profondità e salvare nostro padre. Forse allora anche il libro di Collodi è un’invenzione di paternità: non l’edificante fiaba del pezzo di legno che a furia di errori e spaventi diventa bambino, ma la traversata di privazioni e dolori compiuta da un uomo che impara a diventare padre. Un libro unico, fiaba e romanzo, di legno e di carne.