La Stampa, 5 aprile 2022
Il battaglione siberiano, ultimo mostro del putinismo
Guardate quella faccia da ragazzo insieme a quegli altri ragazzi, uno tiene la bandiera, a bande orizzontali, una larga e azzurra, le altre più strette, bianca rossa e verde. Al centro una palla bianca (il sole? la luna?). Questi ragazzi hanno gli occhi “stretti e lunghi”, come quelli dei soldati russi che i testimoni sopravvissuti alla strage di Bucha hanno visto entrare nei cortili delle loro case e ammazzare i loro cari, alcuni con le mani legate dietro la schiena, poveri sacchi umani accartocciati nel fango. Sono loro i responsabili del massacro che sta dando una piega simbolica e – se possibile – ancora più disumana all’atroce guerra ucraina. Il sito di news ucraino Obozrevatel ha dato un nome al loro comandante e un’identità di gruppo, Omurbekov Azatbek Asanbekovich, 41 anni, responsabile dell’unità militare 51460 della 64esima brigata fucilieri motorizzati. Non sappiamo se sono stati loro, forse un’indagine e la storia lo diranno.
Ma in quelle loro facce sorridenti c’è una delle verità nascoste di questa guerra, la miscela umana che si combina e precipita nella violenza gratuita davanti alle povere case di un sobborgo di Kiev. Quel comandante e quei ragazzi, come racconta quella bandiera, vengono dalla repubblica di Sachs, Yakutia, lontana sette fusi orari ad est di Bucha, una degli ottantacinque “soggetti” amministrativi della Federazione Russa, che banalmente chiamiamo tutto insieme Siberia, evocando ad un tempo il grande freddo, i mammut, infinite riserve di gas, i depositi d’oro e di diamanti, naturalmente il Gulag di Solzhenicyn e la Kolyma di Shalamov. È l’entità amministrativa più estesa nel mondo, 3 milioni di chilometri quadrati (dieci volte l’Italia) abitata da russi e ucraini arrivati laggiù come coloni fin dai tempi dello zar. E poi naturalmente ci sono loro, con gli occhi stretti e lunghi e quei sorrisi che nascondono la “spietatezza indiscriminata” che appartiene alla pratica russa della guerra e rivelano – come ha scritto Vladimir Pashtukov, su uno degli ultimi numeri della Navaja Gazeta – il «militarismo come una manifestazione dell‘essenza del putinismo».
Ma cosa può essere successo a Bucha? Non è difficile da immaginare, lo leggiamo in un articolo di Anna Politkovskaja del febbraio 2004, quando reparti di Omon e del Guvd di San Pietroburgo e di Rjazan hanno rastrellato via Choperskaja, a Novye Aldy, sobborgo di Grozny, Cecenia: «Sono entrati nel cortile numero 27, avevano già ammazzato i fratelli Arsamurzaev, il vecchio Abulchanov, marito di Ajna, davanti agli occhi della loro figlia Luisa di 9 anni, a cui aveva regalato una scatola di carne stufata, ordinandole di non gridare. Avevano ucciso anche Chasan Estamirov, di un anno, insieme alla mamma Tojta, al nono mese di gravidanza, al padre e al nonno. I testimoni raccontano che dopo aver ucciso i carnefici brindavano con la vodka che si erano portati dietro sui veicoli blindati».
Anna Politkovskaja, giornalista della Novaja Gazeta, è stata uccisa il 7 ottobre 2006, all’ingresso di casa sua, a Mosca. Le indagini non hanno mai trovato i responsabili dell’omicidio né i mandanti, ma le sue denunce sugli orrori dei russi in Cecenia con gli squadroni del ras locale Ramzan Kadyrov (oggi uno dei più fedeli alleati di Putin) hanno inquadrato testimonianze precise. Tra l’altro Kadyrov ha schierato i suoi uomini in Ucraina, nell’assedio di Mariupol e non soltanto. E da giorni sui media russi compare con dichiarazioni minacciose nei confronti del capo della delegazione russa ai negoziati Vladimir Medinskij. E sempre lui, nei giorni in cui l’esercito russo ripiegava dalla capitale, ha lanciato una specie di grido di battaglia: «Dobbiamo arrivare a Kiev e finire il lavoro».
Non sappiamo se quei ragazzi che sorridono nella foto dietro il loro colonnello Asanbekovich, siano cresciuti nella tradizionale crudeltà della formazione militare russa. Ma possiamo averne un’idea rileggendo una pagina della premio Nobel Svetlana Aleksievic (da I ragazzi di zinco) nella sua storica inchiesta sui reduci dell’Afghanistan: «Nella mia sezione ero l’unico pivello – racconta un artigliere puntatore -, dieci “nonni” e un solo pivello… Dormivo solo tre ore… lavavo i piatti di tutti, mi occupavo della legna. Con loro non c’erano ragioni, m’avrebbero pestato, in un anno sono diventato distrofico, mi picchiavano di notte, non potevo dirlo, sarei diventato una spia, era una legge e non potevo infrangerla. Verso la fine del servizio ho perfino cercato di picchiare a mia volta un pivello… ma non ce l’ho fatta».
Anna Politkovskaja aveva trovato anche la testimonianza di un carnefice pentito, Igor Onishenko, funzionario dei servizi segreti russi: «Sono andato in missione in Ingushezia, e la mia coscienza mi tormenta. Il capo, Korjakov, ci costringeva a picchiare sistematicamente tutti quelli che fermavamo. Avevamo un programma: far fuori almeno cinque persone alla settimana, ingusci o ceceni, tutti vermi uguali. Io e Serghei abbiamo reso invalide più di cinquanta persone e ne abbiamo sotterrate trentacinque. Mi hanno decorato per l’irreprensibile lavoro svolto. Nell’ultima operazione ho spezzato gambe e braccia al procuratore locale che aveva documenti compromettenti sul nostro reparto».
La denuncia è del 16 aprile 2004. Nessuno è mai stato punito.
Che ne sarà di Bucha?