La Stampa, 5 aprile 2022
Viva i personaggi Lgbtq nei cartoni Disney
Scrive Cristina Campo in quello scrigno di verità che è Gli imperdonabili: «È possibile che chi fa fiabe sia simile a chi trova quadrifogli che, secondo Ernst Jünger, acquista veggenza e poteri augurali. Comincia a raccontare per dar piacere ai bambini e d’improvviso la fiaba è un campo magnetico dove convengono da ogni lato, a comporsi in figure, segreti inesprimibili della sua vita e dell’altrui».
Si discute in questi giorni di come costruire nuove fiabe animate per i bambini che verranno, con commenti sensazionalistici alla notizia che la Disney incrementerà il numero di personaggi LGBTQ, notizia criticata da un lato come rainbow washing (una riverniciatura arcobaleno per coprire coscienze non immacolate) e dall’altro come pericolosa propaganda “gender”. In mezzo, l’accoglienza di chi vede un passo in avanti nella possibilità di inventare un mondo fiabesco più vario e non più ristretto del quotidiano. Il punto è proprio quello: non quanto la fiaba debba somigliare alla realtà, copiarla o rappresentarla, ma quanto possa spingerci a immaginarla più ampia e ariosa, più folle e visionaria, più straripante e lontana, quanto possa spingerci a cambiare e migliorare partendo da nuclei che i lettori cominciano a intravedere ma solo le grandi narrazioni hanno già delineato, prima che diventino fatti veri e propri. Se ogni scrittura ha sempre qualcosa di profetico, quella delle fiabe è ancora più veggente. I personaggi e le vicissitudini hanno il potere di trascinarci in un altrove, in un luogo dove gli eventi accadono in un tempo che si è travestito da passato ma cela dentro sé un futuro possibile: con le fiabe sogniamo a occhi aperti, immaginiamo fortissimo. Il loro mistero preserva un’interiore eternità sostanziale, ma nei loro abiti più superficiali le fiabe invecchiano, anche con una certa rapidità. Quando quel futuro viene raggiunto e superato, bisogna delineare un altro orizzonte. L’intento propagandistico che i detrattori oggi rimproverano alla Disney non è una pericolosa novità contemporanea, ma è insito nelle fiabe stesse: quando i fratelli Grimm riscrissero Biancaneve, mutuandola dalla tradizione orale dov’era una fiaba gotica, non solo la edulcorarono a poco a poco per sedare le proteste dell’alta borghesia e della nobiltà che storcevano il naso sulle scene più cupe, ma inserirono a poco a poco dettagli utili per l’educazione dei loro ricchi rampolli. Uno fra tutti: i nani cominciarono a dare a Biancaneve istruzioni precise su come tenere la casa in loro assenza. Pulire, rassettare, ordinare diventavano ufficialmente compiti femminili, cosa che nella versione orale mancava del tutto. I Grimm fecero esattamente ciò che la Disney fa adesso: piegarono la fiaba a una versione della realtà da costruire. Oggi, quel modello è superato e se ne propone un altro, in parte già esistente grazie alle battaglie degli ultimi anni, e in parte visibile come obiettivo: una società senza discriminazioni sessuali. Quali che siano le sue ragioni, l’intento disneyano si sposa con la direzione contemporanea.
Chi fa fiabe, dice Cristina Campo e questa bufera lo conferma, ha una enorme responsabilità: portarci come veggenti in un mondo che non esiste ancora. Per questa ragione oggi alcune fiabe ci sembrano vetuste, superate. Non è la loro anima, la loro essenza a essere pensionabile: più andiamo indietro a cercare le versioni più antiche e originali, più ne scopriamo inediti spigoli e cupezze, appiattiti da riduzioni ormai polverose, e più desideriamo ripartire da quelle. La Alice di Lewis Carroll non ha nemmeno una ruga, quella Disney si fa più noiosa a ogni visione. Lo stesso vale per Peter Pan, La spada nella roccia, Mary Poppins. Possiamo essere affezionati al cinema Disney perché è quello con cui siamo cresciuti, ma se pretendiamo che questo basti a renderlo formidabile anche per le generazioni a venire, allora la nostra nostalgia si trasforma in una reazionaria arroganza. Forse ai bambini del prossimo decennio piaceranno sia Gli Aristogatti che i cartoni pensati apposta per loro; forse qualcuno preferirà i film vecchi, e qualcun altro i nuovi; probabilmente alla maggior parte piaceranno entrambi. Troveranno credibili sia il gattone macho Romeo che un nuovo felino queer, e sceglieranno con chi identificarsi non solo in base al sesso o all’orientamento: del resto non ci si identifica in Cenerentola perché femmine, né tutte le bambine cui lei piace vogliono sposare un principe, magari hanno solo delle sorelle brutte e rompiscatole o una segreta passione per le zucche. I bambini, che sono molto più intelligenti degli adulti, capiscono benissimo che nelle fiabe il matrimonio è il simbolo della soluzione di un problema e sanno come traslare questo significato nella vita concreta: non è affatto detto che vogliano sposarsi a otto anni. Questa è l’unica ragione per essere mediamente cauti ed evitare di lanciarsi in dichiarazioni polarizzate che servono a posizionarci come adulti ma non a capire come funziona l’immaginario infantile.
Non so cosa intenda la Disney per «personaggi LGBTQI» – come se non ne esistessero, come se Crudelia De Mon o Peter Pan non fossero già iconici in quel senso – ma di una cosa sono certa: questa rivoluzione sarà tutto tranne che un pericolo. Sarà l’immagine di un nuovo futuro e come sempre a qualcuno farà paura, poi un giorno quel futuro diventerà il presente e ce lo lasceremo alle spalle per inventarne un altro ancora. Intanto gli diamo il benvenuto, sia perché più inclusivo sia – soprattutto – perché capace di farci sognare più in grande, ed è tutto quello che serve a noi adulti e ai nostri bambini.