Avvenire, 5 aprile 2022
Cancella, cancella qualcosa resterà
Il nemico, per stare alla teoria politica di Carl Schmitt, è il nostro doppio contrapposto: colui che rivela a noi stessi che esistiamo. «Molti nemici, molto onore»? Qualcuno forse lo pensa ancora; ma il nemico è sempre lì che ci guarda. E di questi tempi, è più che mai presente nelle nostre discussioni. L’intenzione spontanea che sorge in molti è di cancellarlo dalla nostra vista. La cancellazione sarebbe lo strumento che mette a tacere il nemico. Sarà proprio così? L’abbiamo visto in queste settimane di guerra: se il nemico è Putin, e la Russia, allora bisogna mettere a tacere in casa nostra tutto ciò che li chiama: può essere Dostoevskij, o una cantante lirica, oppure ancora un quadro. È di ieri la decisione della National Gallery di Londra di cambiare il titolo a un’opera di Edgar Degas: le Danzatrici russe sono diventate Danzatrici ucraine. I funzionari della National Gallery hanno motivato la loro scelta dicendo che gli sembrava il momento giusto per mettere fine a una «discussione durata molti anni nella letteratura accademica»: i presunti nastri per capelli usati dalle ballerine essendo di colori blu e giallo tradirebbero la loro nazionalità ucraina. Il povero Degas si concerà nel suo sacello. Si può credere a tutto oggi, se non fosse che il primo ministro inglese (come già Blair a suo tempo con Saddam) è il più accanito sostenitore con l’America della linea dura e guerresca verso Putin. Trattasi dunque, più che mai, di un caso di cancellazione del nemico.
Germano Maifreda, storico dell’economia che insegna alla Statale di Milano, ha appena pubblicato il saggio Immagini contese da Feltrinelli (pagine 154, euro 18) il cui sottotitolo abbraccia una «storia politica delle figure dal Rinascimento alla cancel culture». È una regola ormai certa, non soltanto per gli storici, ma per la psicologia e l’antropologia: la cancellazione e il nemico sono complementari. Una volta scelto il nemico, si cercherà di demolirne l’immagine. E non solo. Si procederà a sequestrarne o a confiscarne i beni e il denaro (è quello che le banche oggi stanno facendo con i magnati russi che hanno proprietà e capitali in Occidente, ma, come ricorda Maifreda, fu così anche con gli ebrei sotto il fascismo); si ridurranno i loro diritti (vedi le leggi razziali, ma oggi il fatto stesso di essere russo e di essere un so- stenitore di Putin basta alla Scala per cancellare il contratto a un direttore); si misconosceranno i debiti storici e culturali con chi oggi è nemico ma ieri era per noi un amico. Di questi rovesciamenti di fronte è piena la storia. Ma la storia è anche un terreno dove la verità può essere aggiustata o manipolata: «Nessuna traccia del passato è giunta a noi pura, intatta, primitiva», avverte Maifreda, e poi giustamente osserva che «i cancellati di ieri potranno certo diventare i cancellatori di domani; coloro che oggi temono la propria cancellazione devono, a loro volta, ammettere di aver cancellato».
Maifreda, che ha affrontato anche in altri studi vicende legate a storie di ebrei nei secoli scorsi, inizia con una vicenda che coinvolge la comunità ebraica di Mantova e un pittore locale, Vincenzo Sanvito, che nel 1602 ha raffigurato l’impiccagione per i piedi di sette ebrei. Il clima antigiudaico nel ducato di Mantova attorno al 1625 non era diverso. Il quadro, protesta la comunità ebraica, fomenta l’odio antisemita, che già aveva avuto le sue fiammate con la predicazione del frate Bartolomeo Cambi che portò alla condanna a morte dei sette uomini. Gli ebrei chiedono che il quadro sia bruciato perché si sentono minacciati da quell’immagine. Del dipinto resta traccia solo in una stampa seicentesca dove oltre all’immagine si paragona il legno a cui fu crocifisso Gesù con quello a cui vengono appesi «i Perfidi Giudei».
Può essere vista come la richiesta di “cancellazione” da parte di una “minoranza”, come accade oggi? Certamente. Ma c’è dell’altro. Il quadro era stato ceduto alla comunità ebraica. Il pittore non era d’accordo. Scrisse ai duchi e fu ordinato agli ebrei di restituirgliela. Ferdinando Gonzaga non si era reso conto del problema di ordine pubblico che rischiava di creare, e il giorno dopo lo fece ridare agli ebrei. La faccenda però si sdoppia, perché nel faldone della pratica, alla fine compare anche una incisione che raffigura il Martirio di Simonino, che era valsa l’accusa del sangue alla comunità ebraica trentina: dopo interrogatori e torture, venne la confessione forzata di alcuni ebrei, poi giustiziati. Il caso generò molto odio verso gli ebrei finché nel 1965 venne chiuso dalla Chiesa e Simonino cancellato dal martirologio romano con la sconfessione del culto (una quindicina d’anni fa Ariel Toaff aveva scatenato un putiferio in casa ebraica pubblicando il saggio Pasque di sangue, col quale Maifreda dice di non concordare). Ma in merito alle torture subite dai presunti colpevoli, che vennero fatti confessare portandoli al limite dove il torturato direbbe qualsiasi cosa pur di far smettere l’aguzzino, non si capisce molto invece l’accenno sibillino e en passant a un saggio del 2019 di Elena M. Catalano sulla rivista “Archivio penale” dedicato alla tortura come inutile mezzo giudiziario, dove si afferma: «basta pensare alle sevizie usate nei confronti dei brigatisti rossi per provocare la delazione». Un esempio estrapolato da un discorso assai più ampio sulla “confessione estorta”, a mio parere fuori contesto e sviante.
Ma qui torna fuori Sanvito perché pare che la comunità ebraica avesse trattato con lui anche l’acquisto di un quadro dedicato a Simonino. Che non ha trovato conferme documentarie poiché, essendo interdetto agli ebrei il possesso di immagini sacre cristiane, essi probabilmente lo “cancellarono” mettendolo al rogo.
Un altro capitolo comincia con le censure verso le edizioni musicali Ricordi nell’Ottocento, con gli spartiti distrutti di un Inno nazionale di Gioacchino Rossini o della Battaglia di Legnanodi Verdi sotto la dominazione austriaca, e poi affronta tra altre vicende la storia della collocazione nel 1889 della statua di Giordano Bruno a Campo de’ Fiori che vide convergere a Roma migliaia di giovani e anticlericali in un tripudio di bandiere rosse e nere («il treno che li portava dalla sola Napoli era di 54 vetture»). Fu una sorta di “cancellazione” in positivo, che nel monumento celebrava la rivincita sulla condanna ecclesiale. Una storia che intrecciò le strategie dell’Italia risorgimentale e unitaria, quelle di lobby e massoni (ancora fino al fascismo), e la posizione sempre più nell’angolo della Chiesa: papa Leone XIII ne fu molto intimorito. Doveva essere una «festa internazionale del libero pensiero», scrissero gli organizzatori del corteo che mosse dalla Stazione Termini verso Campo de’ Fiori. Una festa di popolo, insomma. I gesuiti scrissero che era un «Campo maledetto».
A volte la cancellazione avviene nella mente e nella cultura di chi ha ben altri pensieri per la testa, così – scrive Maifreda – «le smemoratezze del presente non implicano, a loro volta, che il significato di quel monumento non possa non essere da qualcuno percepito come auspicabile e positivo, da altri come esecrabile e offensivo». La Chiesa ha rielaborato il caso Bruno e ha fatto mea culpa. Oggi però Bruno sembra nell’ombra rispetto alla foga della cancellazione che colpisce invece in America figure come Colombo e Lincoln, e finanche Martin Luther King. Chi non avrà sempre qualcosa da farsi perdonare? Però la cancel culture non ha molto a che fare con la teoria del sospetto che spinse Warburg a far riemergere certe verità nascoste rileggendo il nesso fra parola e immagine. È qualcosa che nasce dal basso, dalla pancia di molti sobillati da chi usa il politically correctcome un tempo l’immagine di Simonino riuscì a scatenare l’odio antisemita. Il nemico, ora, sono le verità storiche acquisite e ogni minoranza ha qualcosa che vuole cancellare. Ma il potere, manipolatore di verità, non è forse lo stesso che poi promuove i diritti delle minoranze. C’è qualcosa che non torna.