il Giornale, 5 aprile 2022
Le donne nell’antichità: dee, maghe, lussuriose
«I l mio nome è Etèra, e sono amica di tutti. Su, imbarcati! Non chiedo molto. Accolgo tutti quelli che salgono, ospito lo straniero e il cittadino. Sbattetemi in mare come in terra». La nave-bordello che parla in prima persona e con placida oscenità nell’Antologia Palatina è una delle meno conosciute, ma non per questo meno irresistibili, tra le Donne e dee nel Mediterraneo antico raccontate da Paola Angeli Bernardini (Il Mulino, pagg. 216, euro 15). Tutte le donne più celebri del mito, infatti, sono in qualche modo legate al Mediterraneo: Calipso, l’incantevole, «tremenda» ninfa che tiene prigioniero Odisseo nell’isola di Ogigia ma lo aiuterà a costruire la zattera con cui ripartirà per Scheria; Circe, la «serpentessa» che trasforma i suoi compagni in porci ma che anticiperà all’eroe il viaggio nell’Ade; Elena, che secondo Omero fugge sulla nave di Paride, ma che in Euripide si nasconde in Egitto e resta fedele a Menelao, per tornare con lui a Sparta «sul mare azzurro scuro, sui cupi flutti delle onde che mugghiano bordate di schiuma». Nel mito, il mare è spesso legato ad amori travolgenti: come nel caso di Medea, che sale sulla nave di Giasone, e, temendo di perderlo («Dove andrai una volta partito?») abbandona la patria per andare incontro al suo feroce destino; non meno tragica è la sorte di Didone, che «brucia consunta dal suo fuoco», illudendosi di poter sopportare un dolore che ha saputo prevedere, e, nelle Eroidi ovidiane, chiede a Enea solo un po’ di tempo, «finché il mare si plachi e l’abitudine moderi il mio amore»: ma Enea fugge «sul mare infuriato», e la Sidonia Dido si toglierà la vita. Un altro amore infelice legato al mare è quello tra Ero e Leandro, giovani innamorati separati dalle rive dell’Ellesponto: ogni notte, Leandro attraversa lo stretto a nuoto, seguendo il suo «amore imprudente» e «muovendo le sue braccia per gli occhi della sua donna», mentre Ero «bisbiglia di lui», lo sogna, ma si suiciderà quando il mare «che spumeggia di immense ondate» le restituirà il corpo dell’amato.
Meno magiche ma altrettanto fascinose, nonostante l’immensa misoginia delle fonti, sono le «donne straordinarie del mondo antico» raccontate da Lorenzo Braccesi in Dissolute e maledette (Salerno, pagg. 160, euro 16): da Semiramide, che la metà delle fonti descrive infiammata di libidine e assetata di sangue e sesso, a Cleopatra, meretrix regina secondo le inequivocabili parole di Properzio; da Giulia, figlia di Augusto, «trasformata», nelle parole di Seneca, «da adultera in prostituta» e confinata dal padre a Ventotene, a Messalina, nota ninfomane, fino a Clodia, la «Medea Palatina» secondo Cicerone forse un suo corteggiatore in gioventù, come suggerisce Plutarco che «batte la strada accompagnandosi ai mariti altrui», tanto degenerata da non prostituirsi nell’ombra, ma «da abbandonarsi alla passione tra la folla e alla luce del sole». Ancor più feroce è il ritratto di Fulvia, la «pasionaria» della repubblica romana, moglie di Publio Clodio Pulcro, di Gaio Scribonio Curione e, soprattutto, di Marco Antonio, verso cui il futuro, irreprensibile custode dei mores maiorum, Ottaviano Augusto, indirizza un epigramma al vetriolo: «Dovrei dunque farmela con Fulvia? O mi fotti mi dice o corriamo alle armi. Tengo all’arnese assai più che alla vita. Meglio lo scontro, squillino le trombe!». All’epigramma di Ottaviano, oltre alle testimonianze degli storici come Cassio Dione, secondo cui Fulvia avrebbe strappato e punto con gli spilli la lingua dalla testa mozzata di Cicerone, si aggiungono le iscrizioni incise sulle ghiande-missili, formidabili «proiettili» lanciati con le fionde: su una di queste ghiande, scagliate durante il sanguinoso assedio di Perugia, possiamo leggere: «punto al clitoride di Fulvia»; le ingiurie, però, erano più democratiche e più fantasiose – dei loro dedicatari, e non a caso su altri reperti troviamo scritto: «salve Ottaviano, succhialo», oppure «Lucio Antonio, frocio, sei morto». Le donne, però, erano e sono ancora, senza dubbio, il bersaglio prediletto di questa sconfortante ironia. Homo homini lupus, certo: ma, nonostante le professioni di femminismo di molti autori politicamente corretti, l’uomo resta sempre più lupus per la donna.