Il Messaggero, 5 aprile 2022
Intervista ad Adriano Panatta
Se Francesco De Gregori avesse deciso di scrivere La Leva tennistica del ’68, il giocatore che si vede dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia sarebbe stato Adriano Panatta, uno dei più grandi di sempre in Italia, magnifico interprete degli anni Settanta, non solo nello sport. Oggi Adriano, romano puro e quindi cultore della doppia arte del disincanto e dell’ironia, vive a Treviso. Ha messo le tende nella zona del Prosecco, per amore di una donna che ha sposato. Dal suo osservatorio continua a guardare il mondo come ha sempre fatto: con intelligenza e curiosità.
Un argomento di dibattito, dopo l’enorme delusione della mancata partecipazione al mondiale della nazionale di Roberto Mancini, è la crisi dei talenti. Basta tutto questo per spiegare i problemi del calcio? «Il talento è importante, ma da solo non può dare grandezza a un movimento sportivo. Servono altre qualità di base: il coraggio, la costanza, l’allenamento. Il talento è il valore aggiunto, ma senza il resto non vai da nessuna parte. Ho visto diversi tennisti arrivare lontano, pur senza possedere un estro particolare: si allenavano in maniera feroce, lottavano, avevano coraggio».
Un tema italiano, oltre i confini dello sport, è la fuga dei cervelli.
«Il problema del nostro paese è che spesso non si è tenuto conto della meritocrazia. Sotto questo aspetto lo sport è più onesto, direi più democratico: premia i migliori».
C’è qualche speranza di dare maggior voce ai meriti?
«Penso che con le nuove tecnologie e i nuovi lavori la situazione possa cambiare. Un tempo la logica era quella del pezzo di carta e del posto sicuro. Il mondo sta mutando e forse in questa evoluzione ci sarà più spazio per la meritocrazia. Aggiungerei però una cosa: in alcuni casi nei giovani italiani manca un po’ di coraggio».
Il coraggio è un valore importante?
«L’uomo senza coraggio è un mediocre».
Che cosa è mancato alla nazionale di calcio, campione d’Europa appena nove mesi fa, per andare al mondiale?
«Queste cadute impreviste appartengono alla storia dello sport. Nel successo c’è sempre una componente magica e l’Italia che vinse gli europei la scorsa estate mostrò qualcosa di particolare. La sconfitta è un evento magico al contrario. Lo sport è fatto pure di episodi: un pallone che colpisce il palo, un rigore sbagliato come è capitato a Jorginho. Contro la Macedonia del Nord, quella sera la magia ha toccato i nostri avversari. Nella Macedonia parleranno della vittoria in casa dell’Italia per cento anni».
Qual è stato il rigore di Jorginho nella carriera di Adriano Panatta?
«Io ho avuto una bella storia professionale e non posso proprio lamentarmi, ma se devo citare un episodio in negativo, mi vengono in mente i quarti di Wimbledon del 1979, contro lo statunitense Dupré».
Perché non ci fu mai feeling con Wimbledon?
«Sono un figlio della terra rossa e l’erba non mi è mai piaciuta. Ho sempre rispettato la grandezza e la nobiltà di Wimbledon, ma per me il top resta il Roland Garros».
Dopo un lungo periodo oscuro, l’Italtennis è tornata protagonista, ma rimane un senso di irripetibile legato alla generazione degli anni Settanta: Panatta, Bertolucci, Barazzutti, Zugarelli come Zoff, Gentile, Cabrini eccetera.
«Gli anni Settanta furono particolari, nello sport e nelle arti. Pensi alla musica, alla cultura generale di quel periodo. Nel calcio ci fu l’Olanda. E ci fu il tennis italiano, in un panorama di fuoriclasse internazionali del nostro sport».
Federer ci starebbe bene in quegli anni Settanta?
«Federer starebbe bene anche negli anni Trenta».
Lo spagnolo Alcaraz vincitore a Miami appena diciottenne?
«Un fenomeno. Se non diventerà il numero uno al mondo, sarà difficile da spiegare».
Il calcio di oggi è impantanato nell’eterno dibattito giochisti e risultatisti.
«Amo il bello, ma il tiki-taka mi annoiava. Lo trovavo monotono. Preferisco un calcio più veloce, capace di emozionare. Mi riferisco alla Premier, alla velocità del Liverpool. L’Olanda di un tempo, che pure fu rivoluzionaria, rispetto al football che vediamo in Inghilterra, sembra di una categoria inferiore».
Il Liverpool è Jurgen Klopp.
«Mi piace molto. Un uomo intelligente, sveglio, furbo. Non gli ho mai sentito dire una stupidaggine».
La sua Roma è nelle mani di José Mourinho.
«Non lo conosco di persona, ma è simpatico e lo trovo personaggio di spessore. Lo definiscono un guru, ma per me è un grande paraguru. Anche lui mostra grande intelligenza».
La sua Roma è sempre sospesa tra gloria e polvere.
«Siamo lì, aggrappati al treno delle migliori. Qualche volta abbiamo buoni exploit. Manca il grande successo, ma ci siamo arrivati vicino. È la nostra storia: sfiorare spesso il trionfo».
La Roma più bella?
«Quella di Liedholm, Conti, Di Bartolomei, Falcao. Liedholm fu un eccezionale direttore d’orchestra. Sono amico di diversi calciatori di quella squadra e non ho mai sentito una parola fuori posto nei suoi confronti».
Come ha vissuto i due anni della pandemia?
«A livello personale, ho avuto la fortuna di trascorrere il lockdown in una situazione non scomoda e le persone più care sono state in condizioni di sicurezza, ma è stato un tempo cupo della nostra esistenza. Non voglio più parlare di Vax e No Vax: dico solo che se serve, farò la quarta e anche la quinta dose».
Dalla guerra in Ucraina arrivano immagini terribili.
«Viviamo questa tragedia in diretta tv. È atroce quello che sta accadendo. Non riesco a capire come l’uomo possa raggiungere quei picchi di crudeltà».