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 2022  aprile 04 Lunedì calendario

Da "Credere" di Julián Carrón e Umberto Galimberti (Piemme)

Nel 2020, anno dell’inizio della pandemia, ha molto colpito l’immagine di papa Francesco in preghiera, da solo, in piazza San Pietro: «Dio, salvaci dalla tempesta». Pioveva, sembrava una visione apocalittica. Che cosa significa per voi quell’immagine che incarna la solitudine, non solo dell’uomo, ma forse anche della Chiesa?
Julián Carrón
Il gesto eclatante del papa nel marzo 2020, in quella piazza San Pietro vuota, sotto la pioggia, in uno scenario apocalittico, rimarrà per molto tempo nella mente di tutti. La consapevolezza di un bisogno ha generato un grido. La scelta di usare il passaggio del Vangelo sulla tempesta, come modalità per aiutare a capire e affrontare il momento della pandemia, per me è stata geniale. «In quel medesimo giorno, venuta la sera, disse loro: "Passiamo all’altra riva". E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui. Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: "Maestro, non t’importa che siamo perduti?". Si destò, minacciò il vento e disse al mare: "Taci, calmati!". Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. Poi disse loro: "Perché avete paura? Non avete ancora fede?". E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: "Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?"».
Quello che mi ha colpito, ritornando alla scena evangelica della tempesta, riproposta da papa Francesco, non è appena il fatto che quel testo documenta il bisogno dei discepoli, impauriti come lo eravamo anche noi per la pandemia, ma è soprattutto il fatto che, in quella situazione di paura, è emersa – come è capitato anche quella sera in piazza San Pietro – la figura di uno, Gesù, in tutta la sua eccezionalità.
È una diversità documentata dai particolari del racconto di Marco. Il primo: Gesù dormiva pacificamente, come se la tempesta non lo spaventasse. Che cosa lo rendeva così imperturbabile? Non era un’ ingenuità, ma l’emergere della sua autocoscienza, per cui nemmeno una tormenta scalfiva la sua totale fiducia nel Padre. Questa fiducia incrollabile spiega il suo rimanere nel sonno più profondo e anche la domanda stupita ai discepoli, davanti al loro sentirsi perduti: «Perché avete paura?». È una paura la cui origine viene svelata dalla seconda domanda: «Non avete ancora fede?». Come a dire: «Non avete ancora capito chi sono? Se lo aveste compreso, forse non vi sareste spaventati così tanto da chiedermi: "Maestro, non t’importa che siamo perduti?"». Lo svelarsi della eccezionalità di Gesù va oltre il bisogno concreto che la tempesta ha scatenato e, analogamente, va oltre il nostro bisogno – comprensibilissimo – di uscire dalla pandemia.
Quanto sia decisivo cogliere questa eccezionalità emerge da un altro passo del Vangelo, quando i discepoli si trovano davanti a una nuova sfida: «Avevano dimenticato di prendere dei pani e non avevano con sé sulla barca che un solo pane». Da che cosa si vede che non avevano ancora colto la diversità di Gesù, proprio loro che erano stati testimoni delle moltiplicazioni dei pani? Dal fatto che «discutevano fra loro perché non avevano pane». Gesù si stupisce che ancora non capiscano: «Perché discutete che non avete pane? Non capite ancora e non comprendete? Avete il cuore indurito? Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite? E non vi ricordate, quando ho spezzato i cinque pani per i cinquemila, quante ceste colme di pezzi avete portato via?». Gli dissero: «Dodici». «E quando ho spezzato i sette pani per i quattromila, quante sporte piene di pezzi avete portato via?». Gli dissero: «Sette». E disse loro: «Non comprendete ancora?».
Per me è questo il punto cruciale: quella sera di marzo ci siamo resi conto – nella misura della apertura e della domanda di ciascuno – che non eravamo soli con la nostra paura, che nella storia è entrata una Presenza che ci accompagna anche nella difficoltà, nel dolore, che ci permette di vivere ogni circostanza con speranza. È stato come il riaccadere di un annuncio, attraverso la testimonianza del papa. Rendersi conto della natura della Presenza che è entrata nella storia è particolarmente importante oggi, perché il problema che resta oltre la pandemia – che confidiamo si attenui sempre più – è la mancanza di senso: tante persone, anche prima della pandemia e senza essersi ammalate in questi anni, non sanno perché vivono.
Quando Gesù guarisce i dieci lebbrosi, solo uno si rende conto che avere incontrato Lui è stato più importante della guarigione. Un uomo può anche guarire dalla lebbra o superare una pandemia, ma se non scopre il significato del vivere resterà nell’angoscia o nel vuoto.
Per questo il gesto del papa in piazza San Pietro è stato per me significativo, perché è stato l’occasione di un annuncio che rispondeva alla paura profonda, fatta esplodere dalla "tempesta" della pandemia, ma che va oltre la pandemia, riguarda la vita. Mai come in quel momento abbiamo percepito tutti, credenti e non credenti, che eravamo accomunati da un bisogno e che davanti a noi c’era un uomo che portava un annuncio carico di promessa.
È ciò che è contenuto in un passaggio di quel discorso del papa: «Come i discepoli sperimenteremo che, con Lui a bordo, non si fa naufragio. Perché questa è la forza di Dio: volgere al bene tutto quello che ci capita. Egli porta il sereno nelle nostre tempeste, perché con Dio la vita non muore mai». Solo potrà vedere la portata di questa promessa chi avrà l’audacia di verificarla nella propria vita.
Umberto Galimberti
«Salvaci dalla tempesta» chiede il papa a Dio. Anche Heidegger, quando viene interrogato sulla tecnica dal direttore di Der Spiegel, dice: «Solo un Dio ci può salvare». Quindi l’uomo, da solo, non ce la fa.
In questi tempi di pandemia tutti parlano della paura. L’uomo ha paura. Ma è un termine sbagliato, perché la paura, che è un ottimo meccanismo di difesa, ha un oggetto determinato. Ho paura di un incendio, e perciò scappo. Se non avessi paura andrei addosso all’incendio, come fanno i bambini quando non hanno mai visto un fuoco. I bambini non hanno paura di niente, tant’è che bisogna sempre accudirli, perché non vedono i pericoli, perché non hanno paura. Però hanno l’angoscia che, a differenza della paura, non offre nulla a cui agganciarsi, nulla a cui far riferimento. L’angoscia, per esempio, è quel che prova un bambino quando gli si spegne la luce in camera. Lui inizia a strillare e allora viene la mamma, accende la luce, lui riconquista il suo paesaggio e sta bene.
Noi dovevamo parlare di angoscia a proposito del virus, perché il virus non si vede, non si sa dov’è e in che modo ci si può difendere. È quell’indeterminato per cui chiunque può essere un untore, chiunque può essere un portatore della malattia.
Oggi a generare angoscia è la tecnica che ci fa vivere non nel tempo, ma nella velocizzazione del tempo per raggiungere gli obbiettivi che l’apparato di appartenenza ci impone. Non è un caso che l’Italia, nonostante sia un paese dove esiste ancora una vita sociale, dove le persone parlano ancora – e parlare fa bene –, dove si mangia bene, dove il clima è buono e c’è spesso il sole, abbia il 55% della popolazione adulta che assume psicofarmaci.
Lo psicofarmaco, a cui affiancherei anche la cocaina, ha la funzione di rispondere alle esigenze della tecnica che chiede all’uomo di essere sempre all’altezza della situazione, di raggiungere gli obiettivi lavorativi imposti dall’apparato. Poi ogni anno ti alzano l’asticella e tu vai in ansia, e allora non dormi, perché devi sempre essere updated, sul pezzo, devi alzarti di notte per vedere se ci sono le e-mail, non puoi perdere le informazioni.
Come poc’anzi dicevamo, non viviamo più nel tempo, che è una categoria antropologica, perché viviamo nella velocizzazione del tempo, che è una categoria assurda, che fa ammalare. Non viviamo più nello spazio, perché io posso parlare con un amico in California o in Australia e poi non conosco il mio vicino di casa, l’amico del bar, il mio compagno di scuola. Dove va a finire l’uomo?
La tecnica, inoltre, è la più alta forma di razionalità mai raggiunta dall’uomo, che consiste nell’ottenere il massimo degli scopi con l’impiego minimo dei mezzi. Una razionalità che la tecnica ha in comune col mercato. Solo che il mercato ha ancora una passione umana che è la passione per il denaro, da cui la tecnica è del tutto esonerata.
La tecnica non tende a uno scopo, non promuove un senso, non apre scenari di salvezza, non redime, non dice la verità: la tecnica funziona. E se il suo funzionamento diventa universale, e soprattutto diventa la forma mentis di ciascuno di noi, allora l’uomo esce dalla storia, perché l’uomo è anche irrazionale. Irrazionale è il dolore, irrazionali sono l’amore, il desiderio, l’immaginazione, l’ideazione, il sogno, che la tecnica percepisce come elementi di disturbo, perché intralciano quelli che sono i suoi valori: efficienza, velocità e produttività.