Corriere della Sera, 3 aprile 2022
Biografia di Marcel Jacobs raccontata da lui stesso
La colazione del campione è un cornetto alla crema, cappuccino, due spremute. Siamo alla pasticceria di Vigna Stelluti, a Roma, con Marcell Jacobs e il suo allenatore Paolo Camossi. Il campione è estroverso, sorridente, più di come appare in tv. Sembra anche più giovane dei suoi 27 anni. Parla con il corpo, mima quello che sta raccontando. E ha appena bissato il trionfo olimpico, vincendo l’oro sui 60 metri ai Mondiali indoor. Come ha fatto, Marcell?
«È stata la vittoria più difficile. Venivo da un’annata super, in cui mi era andato tutto bene. In molti avevano sollevato mille dubbi: sarà deconcentrato, non avrà più fame… Tanti non conoscono l’atletica, pensano che si possa vincere l’Olimpiade così, con una botta di culo. Dovevo far capire che Tokyo non è stata un caso. È il frutto del lavoro di una squadra, di una vita».
Cosa può essere più difficile di una finale dei 100 metri olimpica?
«Una finale mondiale dei 60 metri indoor, e non solo perché alla fine vai a sbattere a 50 all’ora contro un materasso. Avevo contro Christian Coleman: campione del mondo e recordman in carica, che era stato sospeso e quindi doveva riguadagnarsi tutti i contratti. E io ogni anno provo a saltare la stagione indoor, perché sono pigro, ma poi il mio allenatore mi costringe...» (Jacobs e Camossi ridono).
Perché si è fermato dopo l’Olimpiade?
«Perché era stata una stagione lunghissima, complicata da un infortunio. E l’energia nervosa si era spenta. Avrei rischiato di farmi male».
Ha perso un sacco di soldi.
«Lo so, ma non fa niente. Questo sarà l’anno più importante della mia vita: ci sono i Mondiali e gli Europei. E avrò gli occhi di tutti puntati addosso. Mi studieranno per capire come battermi».
Dicevano che sarebbe andato a vivere in America.
«Si sono inventati un sacco di cose. Perché dovrei andare a vivere in America? Io sono italiano. Già ho lasciato Desenzano per Roma...».
Qual è il suo primo ricordo?
«Sono nato a El Paso, ma del Texas non mi è rimasto niente. Mi ricordo l’asilo dalle suore, e le prime vacanze in camper con i nonni, Rosanna e Osvaldo. Gli zii correvano in motocross e in mountain-bike: partivamo il giovedì, venerdì le prove, sabato le qualifiche, domenica la gara. Mio zio Giancarlo correva nel campionato mondiale. Poi ebbe un incidente».
Cosa gli accadde?
«Si era ritirato per un malanno ai tendini della mano. Lo invitarono a un revival di beneficenza. Per gareggiare si legò le dita con lo scotch, ma non riuscì a staccare l’acceleratore. Cadde. Lo portarono via in elicottero. Vertebra spezzata, gambe paralizzate. Però riusciva ancora a muovere su e giù i quadricipiti: così ha ricominciato ad andare in bici. A Rio 2016 ha vinto la medaglia di bronzo alle Paralimpiadi. Il primo olimpionico in famiglia è stato lui».
A scuola ha mai avuto problemi?
«Per che cosa?».
Per il colore della sua pelle.
«Mai. Non saprei raccontarle un solo episodio negativo legato al colore della mia pelle. Semmai, quando mi facevano disegnare la mia famiglia, ero l’unico che disegnava solo la mamma».
Le è mancato il padre?
«All’inizio sì. Lo subivo. Poi mi sono abituato, e non ci ho pensato più. Dal restarci male sono passato alla mancanza di sentimento: papà non c’è, e basta. Mia madre Viviana ha trovato un nuovo compagno, e nel giro di due anni sono nati i miei fratelli, Niccolò e Jacopo».
È stato un bambino geloso?
«Tutt’altro. Li ho amati moltissimo fin da subito. Finalmente non ero più da solo a casa. In giardino li sottoponevo a un addestramento durissimo: circuito, flessioni, dodici minuti di corsa... Mi sono tatuato le loro date di nascita: 16 maggio 2002 e 25 settembre 2003. Io sono del 26 settembre. Giocavo a spingerli sul passeggino correndo velocissimo e facendo il verso della motoretta, e un giorno dissi alla mamma: grazie per avermi dato i miei fratelli. Adesso faccio lo stesso gioco a Roma con i figli piccoli, Meghan e Anthony».
Non ha mai visto suo padre?
«Quando avevo tredici anni mi hanno portato a Orlando, in Florida, per incontrarlo. Siamo andati a Disneyworld con i suoi parenti americani, è stato divertente. Ma non siamo rimasti in contatto. Fino a quando non l’ho cercato, per ritrovarlo».
Com’è suo padre?
«Si chiama come me, Lamont Marcell, ma è molto diverso. Mamma dice che sono identico a lui da giovane, ma non è vero: lui è decisamente più brutto (Jacobs sorride). È più alto, un metro e 98, e più ciccione. Ed è senza capelli. Come me».
Vi sentite ancora?
«Sì. Siamo riusciti a mantenere un rapporto. Ci scriviamo su Messenger, la chat di Facebook. Il 17 settembre mi sposo, e dall’America verranno in diciotto: lui, la zia, la nonna, due zii, i cugini... E dall’Ecuador verranno i parenti della mia donna, Nicole».
Perché il 17 settembre?
«Perché è il suo compleanno. È della Vergine: un po’ rompiscatole (sorriso), ma affidabile. Se dice una cosa, è quella».
A Massimo Gramellini lei ha raccontato: mio bisnonno ha abbandonato mio nonno, mio nonno ha abbandonato mio padre, mio padre me. E anche lei ha un primogenito con cui non vive.
«È una ricerca che abbiamo fatto con la mia mental coach, Nicoletta Romanazzi. Dovevamo ricostruire la catena degli abbandoni per spezzarla: come se ci fosse una maledizione da sfatare. Non era detto che dovesse essere per forza così, anzi, io non dovevo farlo succedere. Toccava a me interrompere la negatività. Anche per questo ho deciso che dovevo prendermi cura di Jeremy, che è nato quando avevo vent’anni, e ne compie sette a dicembre. Finita questa intervista parto per Desenzano, dove vive, e mi fermo una settimana. È vero, l’ho visto poco. Sta in un’altra città, e d’estate quando è in vacanza io gareggio in giro per il mondo. Ma sono suo padre, e per lui ci sarò sempre. Gli ho regalato l’I-pad, con cui facciamo le videochiamate».
Lei dove ha studiato?
«Le medie dai preti, dormivo in istituto. Poi mi sono iscritto al linguistico, dove eravamo due maschi e ventotto femmine. L’avevo scelto per quello... (sorriso). Ma non sono mai stato uno studente brillante. Così sono finito in un professionale che pareva un riformatorio: cinque anni di risse… almeno l’ho finito. Però ho sempre voluto fare l’atleta».
Sua madre ha raccontato che alla prima gara lei perse una scarpa.
«Avevo otto anni, ed ero già pigro: non avevo allacciato le scarpe, tanto erano strette... Vinsi lo stesso, con un piede scalzo. Un’altra volta, a Salò, ero l’unico con la corsia bagnata: in partenza sono scivolato e sono caduto rovinosamente. Mi sono rialzato, e ho vinto».
Non un’infanzia infelice.
«Sul camper dei nonni con mio cugino Elia, che ha la mia età, andavamo a Jesolo, Riccione, Roseto degli Abruzzi; e mi parevano grandi avventure. Poi abbiamo cominciato a viaggiare con la mamma: Calabria, Sardegna, Francia, Spagna, pure in crociera e al carnevale di Bonn, dove tiravano le caramelle. Con gli amici passavamo i giorni di Pasqua in tenda, nei boschi sopra il lago di Garda: i falò, i barbecue…».
Il suo sogno era il salto in lungo.
«E il mio rivale era Luca Cavalli».
Chi?
«Un ragazzo che a nove anni saltava più di quattro metri, come me. Purtroppo non ne so più nulla».
Il suo idolo era Carl Lewis?
«No. Andrew Howe. Italiano e mulatto, come me. Ero in Calabria quando vinse l’argento ai Mondiali, e davanti alla tv ho pensato: un giorno salteremo insieme».
E tra i personaggi storici?
«Jesse Owens. Quando ho gareggiato a Berlino all’Olympiastadion ho pensato a lui che vince quattro ori davanti a Hitler, e mi sono emozionato».
Lei è esploso tardi.
«Ho avuto una serie infinita di guai; e ognuno si è rivelato un’opportunità».
Primo guaio?
«2014: forte dolore al ginocchio. Risonanza: due buchi nel tendine rotuleo. Per un anno niente salti».
Secondo guaio?
«2015: al primo salto supero gli otto metri, ma mi stiro il bicipite femorale, e perdo gli europei. Riprendo le gare: primo salto nullo; al secondo salto, dolore pazzesco: si è staccata una parte del tendine, il muscolo è sceso di quattro centimetri. Così decido di cambiare allenatore. E ho trovato lui».
Paolo Camossi.
«Mi unisco al suo gruppo a Gorizia, e mi trovo bene, io che mi allenavo nelle vigne. Però continuo ad andare in moto con gli amici. Un giorno per movimentare il circuito di enduro costruiamo un salto: ovviamente cado, sfrego la gamba sul pedalino, mi raschio la tibia fino all’osso. Addio moto».
Nuovi guai.
«2016: salto 8 e 48, sarebbe record italiano, ma per un bava di vento di troppo non vale niente. Poi vado ai campionati di Rieti: la pista è la migliore quando non piove e la peggiore quando piove; quel giorno piove, e mi infortuno al tallone, un male da non poter appoggiare il piede. Niente Olimpiade di Rio».
Neppure il suo 2017 fu granché.
«Supero subito gli 8 metri, arrivo agli Europei di Belgrado da favorito. Ma per pigrizia non provo le rincorse, mi ritrovo su una pista molto rimbalzante: stacco con il piede sbagliato, e non mi qualifico. Poi vado in America: mondiale di staffette alle Bahamas, e stage a Phoenix. Ma ho un dolore al ginocchio che non mi fa correre. Viaggio di ritorno allucinante: Nassau-Charleston-Phoenix-Los Angeles-Roma-Trieste. Sempre maltempo, vuoti d’aria tipo montagne russe. Da allora ho paura di volare».
E come fa?
«Soffro. Dovevo rientrare da Londra: tutti i voli cancellati per un tornado, tranne il mio, per Bruxelles. Sto vedendo un film d’azione, 6 Underground, quando annunciano che il tornado si è spostato giustappunto sopra Bruxelles, e tenteremo un atterraggio d’emergenza. Panico. Così mi sono immedesimato nel film: gli altri gridavano e io stavo sparando dagli elicotteri. Da allora ogni volta che prendo un aereo guardo 6 Underground. E pensare che il mio secondo sogno, dopo la medaglia olimpica, è andare nello spazio. Prima o poi ci riuscirò».
Un anno fortunato l’ha avuto?
«Ogni salto era una fitta alle ginocchia: cartilagine usurata, continue infiltrazioni di acido ialuronico. Nel 2019 però mi sento finalmente in forma. Europei indoor di Glasgow. Primo salto: lungo, ma nullo. Secondo salto: lunghissimo, ma nullo. Se sbaglio anche il terzo sono fuori. Mi cede la gamba, faccio un saltino. Paolo si mette a piangere; io vorrei, ma non ci riesco. Allora decidiamo di passare alla velocità. Ancora una volta, il problema è diventato una fortuna».
Nel 2020 l’Olimpiade è saltata per il Covid.
«Quando arrivò la notizia sul telefonino, pensai che fosse un disastro. Ma da un male è nato un bene: perché non ero pronto. Avevo appena cambiato la tecnica di partenza. Se fossimo andati a Tokyo nel 2020, non avrei vinto. Da due anni avevo nelle gambe i tempi che poi ho fatto; ma dovevo ancora sbloccarmi».
Quando è arrivata la svolta?
«Berlino, inizio 2021. Io sono molto lento a entrare nei blocchi, anche perché è una posizione scomoda, e così gli avversari stanno scomodi più a lungo… Ma all’improvviso il giudice grida: pronti! In altri tempi avrei fatto tutto in fretta e sarei andato nel panico. Invece ho alzato il braccio e gridato al giudice: che fai? Avevo imparato a farmi rispettare».
Di solito alla partenza gli atleti si guardano di brutto. Lei prima della finale olimpica è andato a salutare tutti.
«Dopo la semifinale Ronnie Baker ha detto a voce alta, perché sentissi: non ce n’è per nessuno! Poi durante il riscaldamento è venuto nel mio rettilineo per disturbarmi, e io sono andato a salutarlo sorridendo. L’ho spiazzato. Prima dello sparo ho augurato a tutti “good luck”, buona fortuna: mi guardavano come un matto. L’ho fatto anche con Coleman, ai Mondiali. Lui era un po’ seccato...».
A Tokyo ha migliorato tre volte il suo personale: 9.94 in batteria, 9.84 in semifinale…
«Nel tunnel incontro Jimmy Vicaut, il primatista europeo, che mi fa: complimenti per aver battuto il mio record! Non me n’ero accorto».
Sentiva che avrebbe vinto?
«Non volevo neppure correre. Ero sveglio dalle 5 del mattino. Avevo visto la prima pagina della Gazzetta dello Sport: una mia gigantografia, accanto una fotina di Baldini, l’oro nella maratona ad Atene 2004, con il titolo: ti dico io come si vince... Solo fare i 500 metri a piedi per andare allo stadio mi aveva distrutto. Mi sentivo esausto. Gambe di marmo. Crampi. Pensavo: sono il primo italiano ad aver raggiunto la finale dei 100; posso anche ritirarmi».
Invece.
«Invece resto calmo. L’inglese accanto a me parte prima dello sparo e viene squalificato; io, immobile. Una volta mi concentravo sugli avversari, pensavo a batterli. Sbagliato. Devi concentrarti su te stesso, pensare solo a correre il più veloce possibile».
Però nella finale gli avversari li ha guardati.
«Con la coda dell’occhio. A sinistra non vedevo nessuno. Sul traguardo mi sono voltato a destra, per controllare di essere primo davvero».
E poi?
«Poi mi sono visto arrivare addosso Gimbo Tamberi che saltava. E non si trovava una bandiera per il giro d’onore. Forse nessuno pensava che avrei vinto. Paolo sì; ma non era nello stadio, tipo l’allenatore del film Momenti di Gloria, che scopre che il suo atleta ha vinto solo quando sente l’inno e vede da fuori la Union Jack salire sul pennone. Il mio invece mi ha visto sul maxischermo. Fatto sta che resto senza bandiera, fino a quando un tifoso sconosciuto mi passa un tricolore».
Le hanno dato fastidio le voci sul doping?
«Non mi hanno toccato per nulla. Sono state messe in giro da persone che non conoscono l’atletica, e non conoscono me. Gente che non sa nulla degli anni bui, delle sofferenze, di tutte le cose che le ho raccontato. Per loro un italiano non poteva vincere l’oro nei 100. Ma io lo so quanto ci ho messo».
Adombrò il sospetto pure un importante giornalista inglese del Times, Matt Lawton.
«E gli inglesi sono stati squalificati loro, nella staffetta».
Dopo lo storico oro italiano è sembrato che ci fossero dissapori con Filippo Tortu.
«A Tokyo tra noi c’era una bella intesa. Ogni squadra fa le sue mosse al momento di entrare in pista, e noi non sapevamo quali inventarci: Dragonball, o i Pokemon, visto che eravamo in Giappone? Poi ci siamo detti che non avremmo fatto nulla: la nostra mossa di entrata sarebbe stata vincere l’oro».
Com’è davvero il suo rapporto con Tortu?
«Normale. È un avversario. Tortu mi ha insegnato a perdere; perché non è facile saper perdere. All’inizio mi batteva. Io sapevo di poter essere più veloce di lui; ma non riuscivo a dimostrarlo».
Chi sarà il quarto staffettista ai Mondiali?
«Deciderà il ct, Filippo Di Mulo. Io non mi sono mai permesso di dire che devo essere io il quarto. Certo, mi piacerebbe. Ma l’allenatore dice che non può mettere l’uomo più veloce nel tratto finale, il più breve, anziché nel secondo, che dura quasi 130 metri».
A quale record può arrivare?
«Se glielo dicessi, mi porrei un limite. Se avessi detto che potevo scendere a 9 e 85, non avrei fatto 9 e 80. Mai porsi limiti».
Qual è il suo idolo fuori dall’atletica?
«Hamilton. L’unico mulatto della Formula Uno. Ed è tatuato, come me».
Quali tatuaggi si è fatto dopo Tokyo?
«Il racconto dell’Olimpiade, sul braccio sinistro: la fiaccola, Ercole che sorregge una medaglia d’oro, un paesaggio del monte Fuji con pagoda, i cinque cerchi, e “Italia” scritto con i caratteri giapponesi che avevamo sulla tuta».
È giusto escludere i russi dalle competizioni?
«Non saprei. Lo sport è sempre servito a fermare le guerre. Mi metto al loro posto; si diranno: io che colpa ho? Non ho preso io questa decisione…».
A Monza, quando ha conosciuto Hamilton, c’era anche Bolt; ma non vi siete incontrati.
«Eravamo in parti diverse del circuito. Ma dopo Tokyo Bolt ha avuto belle parole per me in pubblico, e mi ha scritto un messaggio in privato. Solo che io l’ho letto cinque giorni dopo».
Cioè lei non ha letto un messaggio di Usain Bolt, il più grande atleta di tutti i tempi?
«Le faccio vedere i messaggi che ho ricevuto dopo l’oro. Questi sono solo i direct che arrivano su Instagram dai profili verificati, con la spunta blu. Molti devo ancora leggerli adesso. Ma guarda! Mi hanno scritto pure Facchinetti e Barella, quello della Nazionale, e io non lo sapevo… Il messaggio di Bolt però l’avevo trovato, e gli ho risposto subito: Usain scusa il ritardo...».
E il nome Mennea, le dice qualcosa?
«Non l’ho mai incontrato, ma so che è una leggenda, che faceva allenamenti durissimi. Oggi tutti e tre i record europei della velocità sono di un italiano: i 60 e i 100 miei, i 200 suoi. Ora il mio allenatore vuole farmi provare i 200, ma io non voglio...».
Pietro Mennea
Non l’ho mai incontrato, ma so che è stato una leggenda. I 200 metri sono troppo faticosi, ma almeno una volta la sua gara la devo provare
Perché?
«Troppa fatica. Ma almeno una volta la gara di Pietro Mennea la devo fare».