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 2022  aprile 03 Domenica calendario

Professione graphic designer


Non esiste una pratica che non comporti una teoria: anche per aggiustare un rubinetto o per disporre un impianto elettrico bisogna avere un’idea di come procedere, di cosa fare prima e cosa dopo. Eppure non tutte le attività prevedono una filosofia, cioè una riflessione essenziale o morale sull’attività in sé. Ad esempio non è comune per idraulici ed elettricisti scrivere per esprimere una visione del mondo, in quanto idraulica ed elettricità sono reputati ambiti tecnici e non ci si aspetta che da questi emerga un discorso critico, estetico o politico. Nel XIX secolo – e in parte ancora oggi – anche il graphic design era un settore tecnico e il grafico veniva considerato un operaio specializzato: qualcuno che fornisce un servizio, come impaginare libri, volantini, manifesti o dare forma a una scatola di biscotti. Poi, per gradi, a partire da metà secolo, si comincia a intuire che la grafica non è una conoscenza esclusivamente specialistica, ma possiede un potere commerciale e sociale su cui è necessario riflettere.
Non che in passato un’idea del genere non fosse già comparsa: dai tempi di Lutero – che impiega volantini a stampa per fare propaganda antipapale – si era capito che la grafica si diffonde con rapidità, esercitando un’enorme persuasione sulle masse; per non dire di imprese titaniche come l’ Encyclopédie di Diderot e d’Alembert, che avevano dimostrato il valore conoscitivo delle tecniche di illustrazione e di impaginazione. Quello che però è nuovo nell’Ottocento è che ogni oggetto e ogni esperienza cominciano a presentarsi rivestiti di grafica: le strade, i negozi, le fiere, i grandi magazzini, i teatri, i treni, i giornali illustrati, e poi tutte le merci e le relative pubblicità, dai cibi ai vestiti, dai saponi ai liquori. In altre parole, in quegli anni si comprende che la grafica non è più soltanto una tecnica, ma sta diventando un mass medium.
All’alba del XX secolo gli intellettuali cominciano a interessarsi all’argomento, a ragionarci su; e pure i progettisti iniziano a scriverne, non per spiegare questioni pratiche, bensì per manifestare, attraverso la grafica, idee, poetiche e visioni del mondo. Fra le tante posizioni emerge una serie di problemi che caratterizzeranno il dibattito per tutto il Novecento: qual è il potere reale delgraphic design nella società di massa? Si tratta di un mero servizio o di un’opera di ingegno? E il grafico è un tecnico, un professionista o addirittura un “autore”?
Per rispondere a queste domande dobbiamo anzitutto delimitare il campo e chiederci: la storia del graphic design di che cosa è la storia? Ovvero, quali sono gli oggetti di cui decide di trattare e quali lascia fuori? E perché? E, di conseguenza, quando dovremmo fissare il suo inizio?
Secondo alcuni studiosi le radici della grafica vanno fatte risalire ai primi segni tracciati con intenti di esattezza: per comunicare qualcosa o per registrare un dato. Non la pittura dunque, né la mera decorazione: la storia della grafica coinciderebbe con quella millenaria delle scritture, dei suoi sistemi, delle sue tecnologie.
Una seconda possibilità è partire dal primo libro tipografico, la celeberrima “Bibbia delle quarantadue linee” realizzata da Gutenberg nel 1453: l’invenzione della stampa a caratteri mobili presenta, infatti, un oggetto realizzato in più copie che getta le basi dei futuri processi industriali. Così in anticipo su scarpe da ginnastica e automobili, è il libro il primo artefatto seriale – e dunque di “design” – che tiene conto di una produzione di massa e di un pubblico di riferimento.
Una terza ipotesi prevede invece di iniziare dalla metà dell’Ottocento, quando con la seconda rivoluzione industriale, con la diffusione dei trasporti, dell’illuminazione artificiale e dei consumi su larga scala nasce la comunicazione come la conosciamo oggi: ossia il packaging delle merci, la pubblicità sui giornali e nelle affissioni urbane, le riviste illustrate e le varie forme di entertainment che offrono stili e modelli di vita all’emergente classe media. Queste tre congetture vanno prese in modo sinottico, giacché le attività grafiche hanno riguardato, nel corso della storia, ambiti diversi della produzione e della conoscenza. Per esempio, se vogliamo comprendere la complessità morfologica di una font non possiamo non partire dalle origini delle forme scritte; di contro, se ci interessa mettere in prospettiva l’uso della grafica sui social network è cruciale risalire dalla logica delle vetrine dei negozi ottocenteschi, dei grandi magazzini e dall’estetica dei passages parigini.
Nel mondo attuale rientrano nel graphic design gli artefatti più diversi: dall’impaginazione di un libro alla segnaletica stradale, dall’aspetto di una scatola di cereali all’interfaccia dello smartphone. Molti di questi oggetti esistono da tempo nel panorama quotidiano e tuttavia nessuno, prima di pochi decenni fa, ha mai usato il termine “graphic design” per riferirsi all’attività di chi li ha disegnati. La formula è difatti recente: si pensi che quando nel 1959 debutta Neue Grafik, la rivista manifesto dell’International Style, il cui titolo inglese recita appunto New Graphic Design, l’espressione non era affatto popolare.
Una consolidata tradizione attribuisce la paternità del termine a William Addison Dwiggins in un testo dal titolo programmatico, New Kind of Printing Calls for New Design; la frase in cui compare è la seguente: «La grafica pubblicitaria è l’unica forma di graphic design familiare a chiunque». Siamo nel 1922, in America. È chiaro che parole e definizioni entrano nell’uso quando un gruppo di parlanti ne sente il bisogno per nominare il mondo; fino ad allora negli Stati Uniti si usava commercial art, graphic art o advertising art. In modo analogo in Italia si discuteva di “arte pubblicitaria” o di “cartellonismo”, esprimendo con queste formule la tensione protomoderna a coniugare le istanze artistiche con quelle dell’industria e dei commerci. Per capire meglio la questione bisogna però spiegare di cosa si occupava all’epoca questo tipo di “artisti”.
A inizio Ottocento i processi di produzione grafica erano svolti da figure che ne seguivano ogni passo, dall’idea iniziale all’artefatto finito: poco era cambiato dai tempi della tipografia di Aldo Manuzio nel xv secolo, e la realizzazione di un oggetto stampato (libro, opuscolo o manifesto) avveniva in un unico luogo di lavoro dove si creava, componeva e stampava. A un certo punto, però, con la meccanizzazione dei processi e con l’accrescersi della richiesta, le singole fasi vengono progressivamente disgiunte. Ovvero, se fino a quel momento l’ideazione e la stampa erano opera di lavoratori che agivano in uno stesso luogo (o che potevano anche essere una stessa persona), a fine secolo chi disegna l’aspetto grafico di una merce lo fa, sempre più spesso, in uno spazio diverso e separato da quello dove l’oggetto viene stampato. L’industrializzazione comporta infatti che da un lato ci sia l’imprenditore che decide quale merce fare; poi c’è la fabbrica che la produce; e nel mezzo c’è chi ne inventa la forma visiva.
La nascita del grafico come mestiere è insomma la conseguenza dello staccarsi delle mansioni ideative dai compiti della tipografia, scorporando il progettista dallo stampatore, con una distanza simile a quella che separava da secoli l’architetto dal muratore. O, per dirla in termini economici: l’idea di grafico in senso moderno prende corpo quando il suo compito si sposta dal settore secondario, ossia la manifattura, a quello terziario, cioè i servizi. Beninteso che parlando di fenomeni socialmente complessi bisogna considerarne sfaccettature ed eccezioni: per tutto il Novecento sono esistiti stampatori che progettavano i loro artefatti, così come sono stati tanti i grafici che hanno preteso di partecipare ai processi di stampa.
Tuttavia qualcosa era mutato: si erano poste le basi di una separazione che andrà compiendosi lentamente, per coronarsi con l’avvento dei personal computer alla fine del secolo.