la Repubblica, 3 aprile 2022
La supernova di Galileo
La sera del 9 ottobre del 1604 curiosi e appassionati di tutto il mondo stavano osservando una rara congiunzione tra Marte, Giove e Saturno, piena di implicazioni astrologiche. Improvvisamente vicino a quel luogo del cielo apparve una nuova luce, più luminosa di tutti i pianeti con l’eccezione di Venere. Rimase lì per un anno e mezzo e poi, come era apparsa, scomparve.
Quella stella nova, come venne chiamata, ha cambiato la storia dell’astronomia e della cosmologia: si credeva all’epoca che le stelle fossero fisse, immutabili e ingenerabili, ma evidentemente non era vero. Scienziati con diverse concezioni dell’universo gareggiarono e collaborarono per spiegarne la natura e l’origine; fra questi Galilei e Keplero, ma anche astronomi cinesi, coreani e arabi. Oggi sappiamo che quella stella nuova era una supernova, l’ultima delle sette supernove osservate a occhio nudo nella Via Lattea – le sei precedenti di cui esiste documentazione erano state registrate negli anni 185, 393, 1006, 1054, 1181, 1572. Quindi non una stella nuova, ma una stella che muore ed esplode. Ciò che ne resta oggi è un oggetto celeste ancora pieno di misteri: la nube proiettata dall’esplosione si sta espandendo a velocità altissima, in alcuni punti diecimila chilometri al secondo, un trentesimo della velocità della luce, e le onde d’urto di questa espansione accelerano particelle cosmiche fino ad altissime energie. Noi astrofisici di oggi la studiamo ancora con attenzione, sempre con un occhio alle prime analisi dei nostri illustri predecessori di quattrocento anni fa. Nell’ottobre del 1604 Galileo Galilei era professore di matematica e astronomia all’Università di Padova, e insegnava le meccaniche dei pianeti. Quando la stella nova apparve nel cielo, fu quindi la figura di riferimento a cui vennero rivolti tutti i dubbi e le domande che una tale apparizione portava con sé. Quella sfera così luminosa e pulsante aveva generato meraviglia, ma anche terrore e curiosità. L’Università chiese a Galilei di fare il quadro della situazione esponendo in tre conferenze pubbliche il suo punto di vista. Tre conferenze che Galilei tenne quasi subito, fra novembre e dicembre, nell’Aula Magna del Bo, il palazzo centrale dell’Università. Anche se oggi sembra difficile crederlo, le cronache dell’epoca raccontano che fossero presenti mille persone a ogni lezione.
Galilei dimostrò attraverso il metodo della parallasse che la nuova stella si trovava oltre la Luna, e quindi in quel Cielo che secondo Aristotele era immutabile. La parallasse è lo spostamento apparente di un oggetto a causa di un cambiamento del punto di vista dell’osservatore: guardando la punta del proprio naso con l’occhio sinistro chiuso, e poi con l’occhio destro chiuso, il naso sembrerà muoversi; conoscendo la distanza tra gli occhi uno può determinare la lunghezza del suo naso. La stessa cosa si può fare da punti diversi della Terra per misurare la posizione dei pianeti e delle stelle, e Galileo lo fece in collaborazione con corrispondenti napoletani e spagnoli. Il nuovo astro si mostrava a tutti gli osservatori nello stesso punto rispetto alle stelle del Sagittario e dello Scorpione, e quindi doveva essere ben più lontano della Luna e dei pianeti: per l’appunto tra le stelle fisse. Oggi rimangono solo alcuni frammenti degli appunti di lezione di Galileo, e sono avvincenti – Galileo era un uomo di cultura a tutto tondo, un letterato oltre che musicista, pittore e naturalmente scienziato.
Un mese dopo le lezioni di Galileo apparve a Padova un trattato sulla supernova. Lo sconosciuto Antonio Lorenzini, dietro il cui nome è facile vedere l’ispirazione di Cesare Cremonini, professore aristotelico di filosofia naturale a Padova e amico-rivale del collega Galileo, pubblicò un libretto intitolato Discorso intorno alla nuova stella, che sbugiardava le conclusioni di Galileo. Per giustificare il concetto di immutabilità del cielo di Aristotele di Stagira, che sembrava smentito dal nuovo astro, Lorenzini affermò che guardare le stelle per misurarne la distanza non serve a nulla: i principi della fisica terrestre non si applicano al Cielo. La risposta di Galilei fu rapidissima e originale: il 28 febbraio 1605 fu pubblicato a Padova il Dialogo de Cecco di Ronchitti da Bruzene in perpuosito de la stella nuova, un libretto in dialetto padovano, attribuito allo stesso Galileo con il possibile aiuto del monaco Girolamo Spinelli. Quel libretto era un’esplicita presa in giro di quanto pubblicato da Lorenzini un mese prima, e attaccava l’intero dogma aristotelico. Galilei lo scrisse usando il dialetto invece del latino, che era la lingua nobile usata per trattare argomenti rilevanti, come segno che le tesi di Lorenzini non erano degne di considerazione. Il Dialogo si svolge tra due contadini, Matteo e Natale. Matteo si chiede se abbia senso tenere conto delle considerazioni di una persona che mal conosce la matematica e decide di occuparsi di argomenti che non gli appartengono, e i due alla fine concludono che è più opportuno affidarsi a uomini di scienza quando si tratta di scienza.
Il Dialogo compare nell’edizione nazionale delle opere di Galileo pubblicata in venti volumi a cavallo del 1900. Non vi compare invece una poesia in ottave, di autore ignoto, pubblicata in appendice alla prima edizione del 1605, intitolata Stanze d’incerto contra Aristotele per la stella nuovamente apparsa e subito sostituita nella seconda edizione. Ne pubblichiamo la prima strofa, e giudicate voi chi pensate possa essere l’autore: «Che più vaneggi, o Stagirita stolto:/ e puro il Cielo e ingenerabil credi?/ Stella nuova, in lui fissa, il chiaro volto/ discopre scintillando, e non la vedi?/ O più che mai ne’ primi errori involto/ il senso neghi ed altre prove chiedi?/ Il senso neghi, onde i principii certi/ dicesti avere de le scienze aperti?».
Alessandro De Angelis, professore a Padova e a Lisbona, è un fisico delle alte energie e un astrofisico. Ha condotto esperimenti nella fisica dei raggi cosmici e ha pubblicato su Science e Nature