la Repubblica, 3 aprile 2022
I grattacieli che ora cercano nuovi inquilini
Se la scrivania è vuota, c’è chi si inventa di ospitare il collega di un’altra azienda. Se a essere deserti sono interi piani, i rimedi – quando si trovano – diventano più radicali. Ma quando l’abbandono riguarda interi centri direzionali, provare a ripopolarli è un’impresa titanica. Milano, Roma, Napoli: ora che lo smart working non è più una soluzione d’emergenza ma una prassi irreversibile, viaggiando tra i grandi headquarters progettati per ospitare migliaia di lavoratori, l’immagine che restituiscono è quella di giganti ormai sproporzionati: semivuoti, spesso troppo costosi da mantenere e con i negozi o i centri commerciali costruiti attorno che rimpiangono il via vai dei lavoratori o le affollate pause pranzo.
A Milano, nei grattacieli simbolo della frenesia produttiva pre Covid, gli inquilini stanno cambiando pelle. Gli uffici, impoveriti dai turni di lavoro casalingo, cercano un modo per tornare a vivere. Nel quartiere di Porta Nuova, ad esempio, dove svettano i nomi delle grandi banche, Unicredit, che ha la sua iconica sede in piazza Gae Aulenti, sta per subaffittare una delle due Torri, la B: 100 metri di altezza per 21 piani di 800 metri quadrati l’uno dove lavoravano 1.500 dipendenti. È caccia a uno o più affittuari, dunque, un’operazione che, spiegano dalla banca, «renderà il lavoro ibrido più sostenibile, migliorando l’impatto ambientale e riducendo i costi di alcuni nostri uffici in cui i livelli di presenza fisica sono stati ridotti».
Poco distante, va nella stessa direzione anche Bnp Paribas che sta cercando nuovi inquilini per almeno quattro dei 27 piani della sua grande sede, la Diamond Tower. Ma se questo tipo di edifici, comunque dislocati nel centro della città, riescono a rifunzionalizzarsi, il vero problema sono i palazzoni dell’hinterland o delle periferie. Costruiti come quartieri-ufficio oggi appaiono così: piccole città fantasma, da cui sono scappati praticamente tutti e in cui i pochi servizi commerciali che c’erano hanno abbassato la saracinesca.
«Ci sono migliaia e migliaia di metri quadrati vuoti», spiega Emanuele Barbera, presidente del gruppo Sarpi Immobiliare che proprio su questo tema ha sviluppato una ricerca: «La domanda da porsi ora è come rivitalizzare queste aree, completandole con servizi nuovi, dalla palestra agli asili, per renderle di nuovo attrattive». Certo, con la fine dello stato d’emergenza molte sedi si ripopolano, ma quel “non sarà più come prima” a lungo teorizzato è ormai una realtà tangibile: la Torre Allianz, nello scintillante quartiere di City Life, ha circa il 66 per cento dei dipendenti in smart working, mentre Generali, che ha sede nel grattacielo accanto, riaccoglie i dipendenti per due giorni a settimana.
A Roma, sulla facciata del grattacielo orizzontale in cui ha sede la Bnl, in via Tiburtina, prende forma un gioco di luci, fatto di pieni e di vuoti. Gli stessi che si alternano anche all’interno, tra una postazione e l’altra dei dipendenti. In tutto sono 3.300, ma lo smart working e le cessioni di rami d’azienda hanno trasformato il progetto di riqualificazione di una zona strategica in un grande punto interrogativo. Circa 500 persone sono state cedute alle srl di due società, altrettante ne entreranno dopo aver lasciato l’altra sede della Bnl in via degli Aldobrandeschi, a Roma Est. Porte girevoli.
Le presenze a Tiburtina, spiega la Cgil, saranno comunque il 40 per cento in meno a causa dello smart working. Ma, guardando nel complesso quello che sta succedendo al settore b ancario, spiega il segretario di First Cisl Roma e Rieti, Claudio Stroppa, «a causare lo svuotamento delle sedi principali è da una parte lo spostamento delle direzioni generali dalla Capitale al Nord, dall’altra l’esternalizzazione di alcuni servizi, con una riduzione del personale e un graduale abbandono dei luoghi».
Lì dove sorgono grandi uffici e i quartieri si sono sempre popolati con il via vai di dipendenti che pranzano al bar, lo smart working rischia di lasciare il deserto: è successo in questi ultimi due anni in via Nazionale, nel cuore di Roma, dove ormai i negozi chiusi non si contano più. Con la fine dello stato d’emergenza e il rientro in ufficio, ora i lavoratori continuano a lavorare da casa in media 10 giorni al mese, anche se il fenomeno, nella Capitale, è molto frastagliato: si passa dalla Rai, in cui in questi giorni c’è stato un ritorno alla situazione pre Covid («frettolosa e senza alcuna riorganizzazione degli spazi», secondo il sindacato), all’Enel che ha il suo quartier generale di viale Regina Margherita vuoto per ristrutturazione.
A Napoli, il conto più salato per lo smart working lo paga il Centro direzionale (Cdn) che sorge al confine con Poggioreale. La cittadella da 4,5 milioni di metri cubi di uffici si è svuotata con la pandemia: un colpo ulteriore per un luogo mai realmente decollato, segnato già prima del Covid dalla dismissione di sedi importanti come le due torri Enel o gli edifici della Tim. La scritta “fittasi” su un grattacielo nell’isola C è ormai scolorita. E, senza impiegati, se la passano male negozi, bar e ristoranti: «Dal 2020 – dice il titolare di “Mimì Gi” – il calo è dell’80 per cento». Una delle multinazionali al Cdn è scesa da 2.200 a 350 dipendenti in sede. Un’azienda non lontana, invece, ha liberato tre piani su quattro e li ha messi in affitto. Il lavoro agile incide anche sulle sedi di banche e imprese medio-grandi nelle altre zone di Napoli: professionisti che si rifugiano nei co-working e scappano dal centro per i canoni alti e la carenza di parcheggi e mezzi pubblici. Un broker assicurativo ha trasferito la sede al Brin 69, l’ex capannone industriale riqualificato anni fa in uffici di grande e piccola metratura con aree verdi e 500 posti auto nei pressi della stazione e dell’autostrada. «Ho assunto la segretaria all’ottavo mese di gravidanza, che per scelta e in modo efficiente lavora da casa – spiega il professionista – Così, ho dato la sua stanza a un perito assicurativo rafforzando le sinergie in sede. Senza lo smart working non sarebbe stato possibile».