la Repubblica, 3 aprile 2022
Intervista a Javier Cercas. Dice che non si può essere neutrali
LONDRA
«Meglio morire in piedi che vivere in ginocchio». Javier Cercas cita Dolores Ibárruri, la pasionaria
repubblicana spagnola. «Il dilemma è sempre esistito, per ogni conflitto. Ma non si può essere equidistanti sulla guerra in Ucraina. Non si può essere neutrali. Non si può».
Perché, Cercas?
«Abbiamo l’obbligo morale di aiutare Kiev. Non possiamo ripetere l’indifferenza che subì la Guerra civile spagnola, quando i Paesi democratici scelsero la neutralità davanti a Franco, sostenuto invece da Hitler e Mussolini. Di lì originò un conflitto catastrofico come la Seconda Guerra Mondiale».
Cinquantanove anni, Javier Cercas è uno dei massimi intellettuali viventi e pubblicherà a breve Il castello di Barbablù, ultimo capitolo della trilogia Terra Alta, in Italia per Guanda dal 26 maggio. Ma lo scrittore spagnolo è anche autore di capolavori “bellici” come Anatomia di un istante e Soldati di Salamina.
Pochi come lui hanno osservato, raccontato e svelato le pieghe della Storia. «Oggi come allora: tertium non datur. Non ci sono terze vie».
Come mai?
«Chomsky ha paragonato l’invasione dell’Ucraina a quella nazista della Polonia. Io a quel 1936 quando Francia, Germania e altri paesi “neutrali” decisero di non essere coinvolti in Spagna. Così, incarnarono terribilmente l’ipocrisia e il cinismo dell’epoca. Oggi non bisogna commettere lo stesso errore».
Ma alcuni sostengono che armare i resistenti in Ucraina significherebbe aumentare e prolungare morte e sofferenze.
«La guerra è una cosa orrenda. Ma hai solo due opzioni: o ti difendi, o ti uccidono. Per gli ucraini: o diventano schiavi, o restano liberi.
La politica del non intervento in una guerra spesso ti pone dalla parte del più forte, dell’aggressore, del boia».
Putin è il nuovo nazismo?
«Rispetto a fascismi, nazismo e totalitarismi del secolo scorso, sinora abbiamo avuto di fronte il “nazionalpopulismo” in Occidente.
Che, a differenza di quanto pensa Timothy Snyder, è diverso dal fascismo. Quest’ultimo usava sempre violenza, il nazionalpopulismo invece sinora l’aveva scartata nelle sue recenti manifestazioni: Trump, la Brexit, Le Pen, Orbán, Salvini. E, ovviamente, il suo leader Vladimir Putin».
Ma ora persino Salvini si è distanziato dallo zar, che prima lodava.
«Perché il presidente russo è andato oltre. Ora Putin incarna la manifestazione bellica del nazionalpopulismo. È una divergenza notevole, decisiva, anche se il presidente russo ce ne aveva mostrato le premesse negli anni scorsi, come in Crimea nel 2014. Ma allora facemmo finta di non vedere.
Tuttavia, i nazionalpopulismi possono essere addirittura più pericolosi dei fascismi».
In che modo?
«Lo diceva Churchill: “I prossimi fascisti si presenteranno come antifascisti”. La democrazia è stata sempre esecrata da fascismi e nazionalpopulismi. Questi ultimi però, nei decenni recenti, si sono mascherati da democrazia, vedi Orbán, gli indipendentisti catalani, Maduro, Ortega in Nicaragua. Ora, invece, Putin ha dimostrato di essere un feroce anti-democratico.
Del resto, è un uomo del secolo scorso».
Ma l’Occidente ha risposto eccezionalmente unito sinora. È una rivincita della democrazia liberale, “decadente” secondo Putin?
«Forse sì. Quando democrazia e liberalismo serrano i ranghi contro una minaccia, sono ottimista. Lo stesso è successo all’Europa contro il Covid. Tutto questo ha reso la vita molto più difficile allo zar. Del resto, l’Ue si è plasmata sulle crisi. Di certo, è una immensa sconfitta di immagine e peso mondiali per Putin, al di là di come andrà questa guerra in Ucraina. La democrazia liberale ne può uscire rafforzata. Ma il presidente russo continuerà a volerci dividere, magari anche con un’altra guerra. Sarà fondamentale restare uniti».
È anche una lotta del bene contro il male?
«Sono parole molto forti. Di certo, da una parte c’è la democrazia e lo Stato di diritto. Sappiamo da che parte stare. Il panico di Putin è esattamente questo: che la Russia venga contagiata dalla democrazia».
Noi europei abbiamo riscoperto, all’improvviso, l’orrore della guerra in casa. Non eravamo più abituati.
«Alcuni illustri politologi hanno scritto che ci saremmo avviati verso un mondo pacifico. Ma la violenza è parte integrante dell’essere umano.
La guerra, prima delle nostre generazioni, è sempre stata la normalità. Fino al secolo scorso, la guerra aveva un prestigio immenso, è stata glorificata da poeti e artisti: Dulce et decorum est pro patria mori, scriveva Orazio. O pensi alla Resa di Breda di Velázquez al Prado».
Quindi la guerra resta inevitabile? E parte integrante della politica, come diceva il generale prussiano Von Clausewitz?
«Negli ultimi decenni, la guerra ha perso molto valore e prestigio. Ciò grazie all’Europa unita, la cosa migliore dell’ultimo millennio. Ma, come dicevo, Putin è un uomo del secolo scorso, dove ci ha riportati.
Detto questo, l’Ucraina non sarà un’eccezione purtroppo. Questa guerra è il ritorno della Storia e della “normalità” umana. Ma se acquisiamo questo concetto, potremo evitare le prossime guerre».
Zelensky è diventato un mito in Occidente. È l’eroe di cui avevamo bisogno?
«Il presidente ucraino, ex comico, mi ricorda Vittorio de Sica nel film Il Generale della Rovere
di Rossellini.
Un “picaro” che diventa “generale”, e che si cala così tanto nella parte per infine capirne l’assoluta importanza e diventare un vero eroe, scegliendo il martirio invece del collaborazionismo. Zelensky ha fatto lo stesso. Sa bene la straordinaria potenza della sua immagine del mondo. Ma a differenza del generale della Rovere, è vivo. E non molla».