la Repubblica, 4 aprile 2022
Taccuini d’artista
Se risaliamo alle origini, alla notte dei tempi, i mondi separati della pittura e della scrittura tendono a fondersi in un’ambigua unità. Prima dei grafemi astratti dell’alfabeto, troviamo geroglifici, petroglifi e pittogrammi, perfetta osmosi di immagine e testo. Poi, da quella remota radice comune sono nate due ramificazioni autonome: il sistema della scrittura e quello della figura, ma la funzionalità di quel primordiale connubio non si è mai estinta del tutto.
Ed è su questa attrazione fatale tra parola e immagine, intesa come uso combinato delle due principali modalità con cui l’uomo ha indagato la realtà, raffigurandola e interpretandola per trasmetterne il senso, che Emanuele Pellegrini, docente di Storia dell’arte presso l’Imt di Lucca, ha investigato a lungo, per poi condensare il risultato del suo lavoro nel saggio La memoria in tasca. Sulla cui copertina, come nei rebus, il titolo – intrigante quanto spiazzante – si chiarisce se lo si somma all’illustrazione: un disegno dell’orafo e incisore fiorentino del ’400 Maso Finiguerra, che mostra un garzone di bottega, intento a scrivere (o a fare uno schizzo?) su un taccuino.
Oggetto delle indagini di Pellegrini è, per l’appunto, il taccuino, strumento di lavoro e di studio, per lo più tascabile, e prezioso compagno di viaggio per fissare la memoria di cose viste o udite. Un work in progress di rapidi appunti il cui aspetto è spesso disorganico perché obbedisce a un ordine dettato da mutevoli circostanze. Un deposito di per sé provvisorio, ma che si presta a essere riordinato in più meditate e divulgabili versioni: diari di viaggio, guide, trattati teorici, repertori di modelli.
Dalla protostoria, l’esigenza di fissare pensieri e immagini su un supporto maneggiabile ha innervato la nostra civiltà, dipanando un fil rouge che arriva fino ai giorni nostri. La memoria in tasca ricostruisce le tappe di questo percorso millenario, di cui mi limiterò a esemplificare qualche snodo. A cominciare dal caso di Adamnan, abate dell’isola di Iona, nelle Ebridi, che intorno al 680 d.C. compila una guida dei Luoghi santi, illustrata da immagini dei principali monumenti. L’abate non è andato in Palestina, ma dichiara di aver trascritto su pergamena gli appunti mnemonici vergati per lui dal vescovo gallico Arculfo, reduce da un pellegrinaggio in Terrasanta, su tavolette spalmate di cera.
Che sia vera o no quest’asserzione, il caso è comunque indicativo del passaggio da un tipo di supporto adatto alla funzione del taccuino come le tavole cerate (portatili e cancellabili) alla pergamena (meno adatta e più costosa della carta, che finirà per sostituirla). La guida di Adamnan presenta anche altri tratti tipici dei taccuini: la connessione con il viaggio, la derivazione dalla mnemotecnica, la vocazione propedeutica, nonché l’intreccio particolarmente stretto di immagini e parole, due linguaggi le cui proprietà non sono fungibili, ma s’integrano a vicenda.
Anche il Livre de Portraiture di Villard de Honnecourt, un quadernetto di pergamena compilato nella prima metà del secolo XIII, è legato a uno o a più viaggi ed è probabilmente la trascrizione “in bella” di appunti presi su tavolette cerate. L’analisi del suo contenuto svolge un ruolo centrale nel primo capitolo del libro, perché al di là del dubbio se l’autore fosse un architetto o un erudito, in esso troviamo altri tratti che spesso ricorrono nel nostro percorso: il carattere miscellaneo e l’oscillazione tra riproduzione di ciò che si è veduto (dal vivo o sul filo della memoria) e processo creativo; e poi ancora la selezione dei dettagli e l’interesse per gli ingranaggi e le carpenterie, che rivelano la personalità dell’autore, poliedrico “ingegnere dell’immagine”, che con il Livre preannuncia sia il taccuino da viaggio degli artisti (e degli storici dell’arte), sia il trattato teorico e l’album di modelli per l’insegnamento. Aspetto, quest’ultimo, che emerge con chiarezza in quei celebri fogli in cui Villard, ricorrendo all’ ars de iometrie, mostra la griglia di figure geometriche con cui tracciare una testa, un corpo umano, un’aquila o un gruppo di figure, mostrandone anche la replicabilità tramite riflessione speculare o rotazionale.
Nei fogli di Pisanello troviamo appunti dal vero poi riversati nelle opere, che alternano il crudo realismo degli impiccati all’incuriosito reportage di costumi ed effigi esotiche della delegazione dell’imperatore Paleologo al concilio di Ferrara. Ma anche gli espedienti semplificatori per velocizzare uno schizzo, riducendo le figure a pochi, sapienti sgorbi, e l’avvio di quella riscoperta dell’antico, che furoreggerà dal Rinascimento al Grand Tour, pellegrinaggio laico che mise in moto legioni di archeologi, restauratori, consulenti e artigiani di lusso, dando vita a una vera e propria industria dell’antico e del souvenir.
Un altro snodo è rappresentato dall’apporto originale del Rinascimento nordico nel documentare su taccuino la propria eccellenza nel campo della ritrattistica e del paesaggio, che ha nei mirabili acquerelli realizzati da Dürer nei suoi due viaggi in Italia e nei disegni preparatori per i ritratti di Van Eyck e Hans Holbein il Giovane, prototipi insigni di due filoni che nel ’600 trovarono degni continuatori in Rubens e Van Dyck. `Leonardo, i cui celebri codici hanno essi stessi il carattere miscellaneo proprio dei taccuini, nel Libro di Pittura teorizza l’uso quotidiano di un «piccolo libretto», da portar con sé per schizzarvi dal vivo «con brevi segni» cose e persone, da cui poi trarre spunto per le proprie composizioni.
Tra ’700 e ’800, il ricorso a un mix di immagini e parole per documentare e interpretare naturalia o artificialia, s’intreccia con la nascita delle grandi mostre pubbliche e dei relativi cataloghi, che comincia con un singolare divorzio tra i due linguaggi. Ai livrets dei Salon biennali del Louvre, elenchi di sole parole con le informazioni essenziali sulle opere esposte, corrispondono, infatti, i raffinati croquis con cui Saint-Aubin memorizza nel suo carnet l’esposizione del 1765, con il Salon Carré gremito di quadri e sculture. Ma se le singole incisioni che deriveranno da quel tipo di appunti visivi inaugurano l’era dei cataloghi illustrati in cui ogni opera è illustrata da una stampa (e più tardi da una foto), la paradossale sfida di Diderot, che nelle sue recensioni dei Salons rinuncia alle figure per innescare l’immaginazione del lettore con una funambolica girandola di ekphraseis, preannuncia, a sua volta, la gara mimetica del linguaggio critico di Baudelaire e di Longhi.
Introdotti dal dialogo a distanza tra scienziati come Réaumur e Dolomieu, con Lanzi e Goethe, l’ultimo capitolo del libro esordisce con i grandi
connoisseurs ottocenteschi e del primo ’900: Cavalcaselle, Eastlake, Bode, Passavant, Morelli, Berenson, Warburg, Adolfo Venturi, il giovane Longhi. Storici dell’arte e direttori di musei pubblici e privati (o loro advisor), quando la fotografia era ancora in fasce e ci si spostava su treni a vapore o a dorso di mulo, per compire scorribande riempiendo gli sketchbook di schizzi e dettagli di opere d’arte – da acquistare, studiare o catalogare – e integrandoli con scritte per memorizzarne, ad esempio, i colori.