la Repubblica, 4 aprile 2022
Da Dresda a Srebrenica, i massacri della storia
«Un rintocco di campane fu il primo segnale, acuto come il grido di un gufo. Afferrai mio figlio Inaki, aveva 17 mesi, presi a correre, senza fermarmi. Un aereo nazista, un Heinkel 51S imparai dopo, prese a inseguire me e il bambino, sul fiume, intorno a un pino, gridavo: perché me, perché me?», ricordava Maria Aguirre che, a 27 anni, viveva a Guernica, la città basca che il gerarca nazista Hermann Göring, scelse il 26 aprile del 1937, come laboratorio «per la mia giovane Luftwaffe», impiegando per la prima volta la strategia del terrore aereo ideata dal generale italiano Giulio Douhet nel trattato “Il dominio dell’aria”. «Non avevamo nulla per difenderci, un paio di vecchi cannoni, pochi fucili catenaccio, qualche schioppo da caccia – piangeva un altro sopravvissuto, Jose Larruzea Larrinaga – mi buttai in un fosso con i nipoti, i tedeschi volavano così bassi che guardavo i piloti negli occhi».
Il parroco, Jose Luis Abaunza, raccolse i certificati di battesimo per contare le vittime fra i 6000 cittadini, secondo lo storico americano Herbert Southworth 1600 morti e 900 feriti. Guernica è da allora, anche grazie al capolavoro di Pablo Picasso, capofila delle città martiri in guerra, eppure fu la prima a subire l’oltraggio della menzogna, che rivediamo nei talk show: il dittatore fascista Francisco Franco, alleato nella guerra civile spagnola di tedeschi e italiani, attribuì la strage «a terroristi baschi rossi in ritirata, con la dinamite», facendo scrivere allo storico Ricardo de la Cierva “I morti a Guernica? Una dozzina”. Tre giorni dopo il raid, le truppe franchiste entrarono nell’abitato, completando il massacro, casa per casa.
I video da Bucha, sobborgo della capitale ucraina Kiev, con i civili morti in terra, mani legate da cappi biancastri, allungano la dolorosa catena delle città martiri, quando i civili – come Douhet preconizzava con le loro case e vite quotidiane, si trovano in prima linea. Lo scrittore americano Kurt Vonnegut era, nel febbraio del 1945, prigioniero dei tedeschi, recluso a Dresda, costretto a lavorare al “Mattatoio numero 5”.
In una lettera alla famiglia, subito dopo la liberazione, scriveva “Il 14 del mese, in 24 ore, aerei Usa e RAF britannica hanno raso al suolo la più bella delle città, ucciso 250.000 persone: ma non me”. Dalla tragedia Vonnegut trae il suo più struggente romanzo, “Mattatoio n. 5” (Feltrinelli), Dresda, borgo di arte gotica, non aveva fabbriche di armi o obiettivi strategici, ma il maresciallo Sir Bomber Harris, capo del Bomber Command alleato, voleva spezzare il morale della Germania e la incenerì. A cavallo di San Valentino, 13 e 15 febbraio 1945, bruciano nel rogo tra 25.000 e 40.000 civili, prende fuoco l’atmosfera stessa, lasciando asfissiati i civili nei rifugi. Winfried Sebald, autore del classico “Storia naturale della distruzione” (Adelphi), annoterà “il senso mai provato di umiliazione nazionale subito da milioni di tedeschi…non troverà più un’espressione verbale, e chi fu colpito da quella esperienza, non riuscirà a comunicarla alle future generazioni”.
Sarà così anche per Bucha? Per Guernica ci volle la caduta del franchismo per l’esame di coscienza, per Dresda il silenzio fu altrettanto lungo, diverso il destino di Hiroshima e Nagasaki che, obiettivo delle testate nucleari americane, al comando del generale Carl Spaatz, 6 e 9 agosto del 1945, vittime stimate tra 150.000 e 220.000, divennero icona del tabu contro la guerra atomica, che garantì alla Guerra Fredda, nella definizione dello storico J.L. Gaddis, di essere “Lunga Pace”.
La lista delle città martiri è lunga, e addolora doverla aggiornare.
Leningrado, oggi San Pietroburgo, venne assediata dai nazisti per 1000 giorni, 1941-1944, Harrison Salisbury del New York Times documentò come i superstiti si ridussero al cannibalismo, prima dei cadaveri, poi dei viventi, in macellerie nascoste in cantina. Tra morti e feriti i tedeschi soffrirono 600.000 perdite, i russi tre milioni e mezzo, i civili u n milione.
Nelle prime righe di “Stalingrado”, il magnifico romanzo dello scrittore Vasily Grossman, 1957, tradotto in questi giorni da Adelphi, una delle eroine detta la linea di condotta per tutti noi, davanti all’invasione di Putin: “Sbagli Marusya – disse Sofya Osipovna – Sono un chirurgo e posso dirti che c’è una sola verità, non due. Quando taglio la gamba a un soldato, non conosco due verità. Se cominciamo a far finta che esistano due verità, siamo nei guai.
Soprattutto in guerra, quando le cose vanno male come adesso, c’è una sola verità. Una verità amara, ma che può salvarci. Se i tedeschi occuperanno Stalingrado, imparerai che chi insegue due verità non ne acchiappa nessuna e sarà la tua fine”.
Come negli stupri etnici perpetrati dai russi a Berlino 1945, quando un editore ebreo, sopravvissuto all’Olocausto, fu talmente disgustato dalle violenze da chiedere a un ufficiale dell’Armata Rossa di intervenire in difesa delle nemiche, nell’Atlanta confederata bruciata dal generale unionista Sherman nel 1865, nella città inglese di Coventry, rasa al suolo dai nazisti, nella notte del 14 novembre 1940 con 1236 caduti, nella balcanica Srebrenica, con gli oltre ottomila massacrati il 25 luglio 1995, invece la “verità”, predicata dalla saggia Sofya Osipovna, non appena le macerie fumanti si spengono e i cadaveri si dimenticano nelle fosse comuni, cade preda di propaganda e ipocrisie. La preghiera è che la speranza di Grossman, ebreo, ucraino e russo, soffi infine, nel nostro secolo.