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 2022  aprile 04 Lunedì calendario

Il nuovo romanzo di Guido Maria Brera

Roma. Notte. Un uomo si aggira per le strade e le piazze deserte della Capitale, tra le ombre monumentali delle rovine. Non c’è nessuno in giro: pandemia? Coprifuoco? Crisi economica? Fine della storia? Tutte ipotesi valide. Di certo c’è solo che la città, svuotata e lugubre, è lo sfondo ideale per qualcuno che si trovi a caccia di fantasmi. Quel qualcuno è Guido Maria Brera, finanziere e scrittore, già autore di libri come I diavoli e Tutto è in frantumi e danza (con Edoardo Nesi) che meglio di tutti gli altri hanno raccontato la crisi economica e le sue ragioni; il fantasma, invece, è quello dell’economista Federico Caffè, scomparso in circostanze misteriose nel 1987: un’uscita di scena dal sapore simbolico, quasi un annuncio della sconfitta della sua scuola, quella keynesiana, a vantaggio di quella neoliberista, oggi dominante.
Il clima è quello di un thriller, e per certi versi è inevitabile: la situazione globale è tale da far tremare le gambe a chiunque ne sia davvero cosciente. Nella scrittura di Guido Maria Brera è del resto assente la retorica di chi il Capitale lo critica per partito preso ma l’ha visto funzionare solo da lontano: la voce di Brera ha la durezza affilata e ineluttabile di chi l’ha osservato dall’interno, abitando in prima persona il suo sistema nervoso e circolatorio, la finanza globale. Anche per questo Dimmi cosa vedi tu da lì (Solferino) è molto più di un teso romanzo a tema finanziario: autofiction, theory fiction, saggio erudito, testo di divulgazione e pamphlet incendiario si fondono qui in un’unica idra, che si scaglia con indomita ferocia contro un sistema economico che da troppo tempo non mantiene più le proprie promesse; contro una globalizzazione che ci ha riempiti di gadget a basso costo in cambio della perdita dei nostri diritti di lavoratori; contro una finanza che ha smesso di portare fondi là dove ci sono le idee per attorcigliarsi su sé stessa.
Sono posizioni che non ci si aspetta da qualcuno come Guido Maria Brera, che nella finanza globale si è formato, ha vissuto e ha conosciuto il successo. Ma è proprio il pulpito da cui giunge il monito a dargli tanta forza, e del resto Dimmi cosa vedi tu da lì è anche un memoir: la storia di un uomo che per molto tempo si è svegliato con i mercati ed è andato a dormire con loro, e se il Gordon Gekko di Wall Street ci ha insegnato che «il denaro non dorme mai», si può intuire quanto poco abbia dormito Brera. Dimmi cosa vedi tu da lì è in effetti anche un romanzo notturno, insonne, una sorta di Grande bellezza in chiave oscura e spietata: la canzone di De Gregori da cui è mutuato il titolo parla in modo fin troppo chiaro: «E vedo i ladri vantarsi e gli innocenti tremare»… Ecco cosa vede Brera, oggi, nel suo libro, e non si fa problemi a identificare subito il nodo, paradossale, della situazione in cui versa il mondo: «Al termine del decennio», scrive, «andò in scena la caduta di un impero. Quello dei cattivi. L’impero che con la sua esistenza aveva reso possibili, in Occidente, il welfare state, l’economia sociale di mercato, lo Stato del benessere. Senza l’Unione Sovietica, tutto ciò non aveva più motivo d’essere. Non c’era bisogno di un compromesso, dal momento che non esisteva più il nemico capace di incarnare l’alternativa radicale. Così l’Occidente aveva campo libero per consumare la sua controrivoluzione».
La crisi della socialdemocrazia corrisponderebbe quindi, in chiave economica, al tramonto del paradigma keynesiano, e di quell’economia «responsabile» e orientata al bene collettivo rappresentata da Caffè e dalla sua scuola, i cui eredi, peraltro, sono vittime di una vera maledizione: marzo 1985, Ezio Tarantelli viene assassinato dalle Brigate rosse; maggio 1986, Franco Franciosi si spegne per un cancro; novembre 1986, Fausto Vicarelli muore in un incidente stradale. Cadono i keynesiani, e cade con loro la possibilità di immaginare un Capitale al servizio dello sviluppo collettivo.
Di tutte le storture della globalizzazione, la più grande è forse il non tenere conto della real cost economy: si abbassano i prezzi di certi beni, crolla il costo del lavoro, e a farne le spese è il pianeta, che in un simile paradigma è solo un luogo da saccheggiare o da usare come discarica. Ecco allora che comincia a ribellarsi, con un’emergenza climatica che è solo all’inizio, e una pandemia che ha già dimostrato di poter bloccare l’ingranaggio globale – e Brera è abile a illustrare quest’ultimo processo con esempi concreti, che mostrano come l’interconessione di tutto con tutto renda anche l’intero apparato estremamente vulnerabile.
Né il futuro appare luminoso: tra le cose più impressionanti del post-pandemia (se mai ci siamo davvero) c’è senz’altro la scarsa reattività del sistema-mondo e delle singole nazioni nell’allocare fondi alla sanità pubblica, come sarebbe logico. Brera va giù duro, senza mezzi termini: «Da decenni su questo edificio volteggiano i corvi, gli stessi che strappano brandelli del Servizio sanitario nazionale. Popolano il nostro Paese da quarant’anni. Hanno le piume di un nero severo come l’austerità. Beccano la sanità pubblica, banchettano sulle sue fragilità come su una carcassa, tagliano, demoliscono, sfaldano. Invece di investire, abbattono i numeri della spesa sanitaria, del personale, dei posti in terapia intensiva. Così hanno fatto tutti, anche gli eredi del più grande Partito comunista dell’Occidente, folgorati sulla “terza via” di Giddens e Blair. 37 miliardi: questo il computo dei brandelli sottratti al Servizio sanitario nazionale nel decennio 2010-2019».
Perché è accaduto, perché sta accadendo tutto questo? Forse, suggerisce Brera, perché manca l’offerta di un diverso paradigma, di una visione del mondo che ripensi l’economia come possibile strumento di salvezza collettiva; la speranza, allora, risiede nel fatto che una simile visione esiste già, e forse siamo ancora in tempo a recuperarla, cominciando a ritrovare, se non il suo fantasma, almeno la memoria di Federico Caffè e del suo pensiero.