Corriere della Sera, 4 aprile 2022
I muri molli di Mariupol
«Io spero, io prego che i bambini davvero non si siano resi conto. Angelika dice che il dolore più grande è stata la morte del gatto. Misha rimpiange il suo drone a quattro eliche e la cameretta. Vorrei credergli, ma non ci riesco. C’era un carro armato all’angolo della strada quando abbiamo deciso di lasciare la cantina. Ci ha visto e ha mosso la canna verso di noi. Mio marito si è messo in ginocchio agitando le mani. E noi dietro a lui. Sui pezzi di vetro. Ci siamo bucati i pantaloni, tagliati le ginocchia, ma siamo rimasti lì, fino a che la canna è tornata indietro. Solo allora abbiamo ripreso a camminare.
Avevamo già capito, una notte, che cosa può fare un cannone. Un colpo ha sfondato il salotto, il corridoio e la tromba dell’ascensore. Dove è passato ha appiccato fuoco. A noi, nelle camere, non ha fatto nulla. Nel senso che non ci è uscito sangue. È stato come un pugno sui polmoni: Misha ha vomitato, io mi sono sporcata. Il pavimento non c’era più, era buio, non sapevamo come arrivare alle scale. Ci siamo calati al piano di sotto, nell’appartamento della signora Natauka. Ci ha aiutato il divano che bruciava. Criminali che evadono con le lenzuola legate. Mentre passavo davanti ai resti dei pesci di porcellana di Natauka, mi sono ricordata quanto considerassi ridicola quella collezione. E invece adesso che non ho una foto, un disegno, un libro, neppure la maglietta di quando ho conosciuto mio marito, adesso che non ho ricordi, ho capito l’amore di Natauka per quei pesci.
Abbiamo attraversato la città come incoscienti perché non c’era solo il cannone. I miei bambini hanno visto una città bruciata, ridotta a scheletro. Prendi una persona, bella o brutta ha sempre un’identità, falle una radiografia e sarà ossa in bianco e nero come morta. Così è Mariupol. Un labirinto in bianco e nero per uccidere. Le strade sono coperte di terra e vetro. Non sono più marciapiedi, ma cimiteri. Tre volte abbiamo cambiato lato della strada. Vedevamo in fondo un cadavere. Non volevamo scavalcarlo. Non abbiamo neppure dovuto dircelo, io e mio marito. Speravamo che i bambini non lo vedessero.
Avevamo fame, sete e freddo, tantissimo freddo. I vestiti che non ti cambi ti raschiano addosso e senti prudere ovunque. Ma tra tutti i sensi quello che fa più male è l’udito. Pensavo che guardare un morto, guardare la tua casa bruciare, fosse il peggio. Invece è il tambureggiare che ti strazia. Colpo ottuso, lontano, quando parte. Strappo indecente, vicino a te, quando esplode. Entra dalle orecchie e ti scuote perché nel frattempo trema anche la terra, l’aria ti schiaffeggia, le cose sembrano diventare molli. Cos’hai da temere dietro a un muro? Tutto, quando senti lo strappo dell’esplosione perché il muro cambia sostanza, diventa onda. Un mondo di muri molli non è un posto dove vivere. Di giorno, di notte, sempre il corpo deve adattarsi a una realtà che non conosce. È in casa, ma ha freddo. Mangia, ma ha fame. Il cervello si sente impreparato, non riposa mai. O impazzisci o ti abitui. Ci siamo abituati. Esplosione potente, sorda: cannonata lontana. Fischio, esplosione lacerante: vicina. Vivi. Cannonate nostre che vanno in là: niente esplosione. Quelle volte che nessuno sparava dicevamo solo “c’è silenzio”.
Solo se fingi che non capiterà a te riesci a uscire, cercare l’acqua, accendere il fuoco. All’inizio ti ripari al fischio, poi però l’acqua non bolle e allora stai fuori anche quando la terra vibra e il rumore è fortissimo perché la bomba cade vicino.
Qui a Zaporizhzhia è un paradiso. Ci sono solo le sirene antiaeree che a Mariupol hanno smesso di strillare già al quarto giorno di assedio. In un mondo dai muri molli, succede di tutto. Anche che le sirene suonano quando cadono poche bombe e non suonano più quando ne cadono in continuazione. Qui a Zaporizhzhia è un paradiso. Qui c’è silenzio».
Iryna
*Professoressa del Mariupolskij Tecnicnij Lizej, Liceo Tecnico di Mariupol
(Testimonianza raccolta a Zaporizhzhia da Andrea Nicastro)