Linkiesta, 4 aprile 2022
La serie tv con Zelensky sembra girata cent’anni fa
Come si racconta il presente? Qual è il tratto che è più sensato rappresentare nella messa in scena dell’umanità di questo secolo? In “Idiocracy” (2006), eravamo scemi ma ci sarebbe potuta andare peggio: un tizio abbastanza scemo, svegliatosi cinquecento anni dopo, pareva un sofisticato genio in confronto a un’umanità che si esprimeva con suoni gutturali e neanche sapeva più che le piante andassero innaffiate con l’acqua, al cui utilizzo si ribellava giacché vuoi mettere quanto lavoro dà la bibita con lo sponsor (esattamente come nel 2022, sì).
In “Benvenuto presidente” (2013), eravamo impegnati a scandalizzarci che, non trovando un accordo sul nome, agli scrutini per eleggere il presidente della Repubblica si votassero, da Totti in giù, nomi a caso (esattamente come nel 2022, sì).
E a questo punto dovrei fare il terzo esempio, che molto deve a “Benvenuto presidente” ma più che di “Idiocracy” è figlio di “Natale in casa Cupiello”; dovrei citare la serie del 2015 in cui Volodymyr Zelensky interpretava un professore di storia che si ritrova per caso presidente della Repubblica, e che La7 manda da stasera, e dopo la quale gli ucraini l’hanno davvero eletto presidente. Un po’ come se gli americani, dopo aver visto “West Wing”, avessero eletto Martin Sheen. Un po’ come se gli italiani, dopo aver visto “Benvenuto presidente”, avessero eletto Claudio Bisio. Un po’ come se noi, nei prossimi anni, eleggessimo Luca Bizzarri, che doppia il personaggio di Zelensky.
Ma non so con che giri di parole parlarne, perché la serie, che è una produzione ucraina e ovviamente aveva un titolo ucraino, è rimasta vittima del tentativo di darsi un tono di La7, delle velleità di cosmopolitismo, del provincialismo internazionalista. E quindi, un po’ come se avessero chiamato una legge sul lavoro “jobs act”, i geni che la mandano in onda hanno deciso d’intitolarla “Servant of the people”. E perché non «Maccarone, m’hai provocato», già che c’eravamo.
Mi piace pensare che l’italiano mediamente ripetente, che trova mediamente ostico capire se the cat sia on o under the table, che pronuncia gap – illudendosi di suonare più internazionale – «gheip», mi piace pensare che quell’italiano lì risponderà, alla domanda «Hai visto “Servant of the people”?», come il personaggio di Zelensky risponde al politico navigato che gli chiede se preferisca Patek Philippe o Vacheron Constantin: «Non li ho letti».
Dei molti dettagli secondari – è lo sceneggiato in cui c’è il presidente d’uno Stato oggetto d’invasione belligerante: si può davvero parlare d’altro, se non si è votate al dio della divagazione quanto lo sono io? – quello che mi sembra più inspiegabile è che i sette anni passati dal 2015 paiono cento: davvero il professore di storia vuole regalare alla nipote un cd? Sembrano cent’anni che non si usano più. Davvero è così fantascientifico che i soldi per il comitato elettorale vengano da un crowdfunding? È dunque così poco tempo che abbiamo fatto del «donate!» un imperativo morale? E davvero gli ucraini avevano pensato nel 2015 a una cosa che agli americani di “The Chair” è venuta in mente solo nel 2021, cioè qualcuno che diventa famoso perché ripreso col cellulare da un allievo mentre dice qualcosa d’indicibile? (Per inciso: le cose che dice il professore di storia zelenskyano sono d’un tale sciatto populismo che in confronto Beppe Grillo è De Gaulle).
È invece perpetuo il meccanismo per cui il politico (di finzione o no) onesto si trova sempre con familiari smaniosi di avere raccomandazioni e prebende. In “Benvenuto presidente” era il figlio di Bisio, qui è il padre di Zelensky.
È invece plausibilissimo che, come chiunque da Tommasino Cupiello in giù, il personaggio di Zelensky, adulto con un lavoro, viva coi genitori. D’altra parte il padre a un certo punto dice che persino il sussidio di disoccupazione è più alto dello stipendio da insegnante (già vedo, davanti al televisore, professori analfabeti ma che si percepiscono sottovalutati annuire forte).
La scena più interessante, nelle due puntate della serie dal titolo innominabile che ho visto, è quella in cui il primo ministro dice al presidente che deve procurarsi un abito disegnato da un grande stilista, e gli stilisti convocati sono gli ultimi che t’aspetteresti a disegnare un completo per incontri di stato, e la scelta del presidente cade su Karl Lagerfeld, interpretato da una sosia nano che però è inconfondibilmente lui, con la coda e gli occhiali da sole e il cucciolo in braccio. Il 2015 è così lontano che era persino vivo Lagerfeld.
Il 2015 è così lontano che gli sceneggiatori non potevano immaginare cosa sarebbe accaduto all’immagine pubblica di Zelensky: non potevano immaginare la guerra, e la necessità di veicolare l’immagine di chi è al fronte anche se non combatte, e quindi le magliette, e quindi i bicipiti sempre in primo piano, e quindi la corsa degli altri a emularlo, a procurarsi abbigliamento sportivo senza che ce ne sia bisogno. Roberta Metsola che lo incontra con una maglietta ancora più aderente sui bicipiti della sua. Emmanuel Macron che si fa fotografare in felpa perché quell’immagine ha fatto diventare la giacca una scelta subito vecchia, subito trombona: chiunque osi un completo di buon taglio ormai sembra imbalsamato come Berlusconi con quei doppi petti degli anni Novanta, come Berlusconi imitato da Sabina Guzzanti.
Forse, quando Renzi s’autoscatta sovrascrivendosi «obiettivo: 82 kg», non lo fa perché ambisca a una carriera di fotomodello, ma perché intuisce che la zona estetica in cui andare a cercare i consensi in questo momento storico è quella scaciata, quella delle felpe e delle magliette, quella in cui sembri pronto per andare a nasconderti in un rifugio; mica puoi metterti una grisaglia con cui sei buono al massimo per una cena di gala di quindici portate. Se la serie sul servitore del popolo la girassero oggi, i consiglieri gli farebbero scegliere il guardaroba non dico in un negozio di articoli sportivi, ma almeno in uno più adatto ai rapper che agli agenti immobiliari.