il Fatto Quotidiano, 4 aprile 2022
Sui chip il mondo si scopre nazionalista
Le ripercussioni del conflitto in Ucraina hanno palesato la dipendenza energetica dell’Europa dal gas naturale. Ma se la Russia rappresenta il 26% delle esportazioni globali di metano (e pesa per il 45% delle importazioni totali dell’Ue), l’inaccessibilità di un altro gas rischia di compromettere alcune fra le più fondamentali filiere produttive.
Nello specifico, due imprese situate a Mariupol (Ingas) e a Odessa (Cryoin) forniscono oltre il 50% della produzione mondiale di gas neon. Un altro 30% si trova in Cina, dove i prezzi sono già quadruplicati rispetto alla fine del 2021. Il mercato del neon ha un valore infinitesimale rispetto al più noto idrocarburo, eppure costituisce un elemento insostituibile nei moderni processi di produzione dei semiconduttori. Le scorte di neon dei principali produttori di chip sono stimate in una manciata di mesi. Il pericolo che la fornitura di quella cruciale infrastruttura tecnologica rallenti a causa della scarsità di neon conferma la fragilità della globalizzazione di fronte alla necessità di assicurarsi l’accesso a un complesso sistema di materie prime, strumentistica, tecnologie e competenze.
La filiera mondiale dei semiconduttori è lunga, segmentata e presenta colli di bottiglia difficilmente sormontabili. Si consideri ad esempio la produzione dei chip più avanzati, quelli da 5 nanometri utilizzati nelle applicazioni 5G e nell’intelligenza artificiale. Essa è resa possibile da un particolare macchinario che intaglia i wafer di silicio con un processo litografico a raggi ultravioletti (EUV) basato per l’appunto sull’utilizzo del gas neon. La fornitura di macchine EUV, dal costo unitario di 180 milioni di dollari, è un monopolio mondiale dell’olandese ASML, che le produce con componenti ottiche e fotoniche fornite esclusivamente dalle tedesche Zeiss e Jenoptik. Il realizzatore dell’architettura sottostante i componenti è la britannica ARM, mentre solo Samsung e una manciata di aziende Usa (Qualcomm, Apple, Nvidia) riescono a progettarli. Infine, determinante è la localizzazione geografica della loro manifattura fisica, concentrata esclusivamente nelle cosiddette “fonderie” asiatiche, stabilimenti mastodontici e ingegneristicamente avanzati dal costo di oltre 10 miliardi di dollari, che solamente la taiwanese TSMC e la sudcoreana Samsungpossono vantare. Le due società producono rispettivamente il 92% e l’8% dei più moderni chip al mondo.
Anche guardando al complessivo mercato dei semiconduttori, il cui valore nel 2021 era di 583 miliardi di dollari (contro i 300 circa del 2012), l’Asia pesa per circa il 79% della produzione mondiale, lasciando all’Europa il 9 e agli Usa il 12%. Una situazione capovolta rispetto al 1990, quando Stati Uniti ed Europa producevano rispettivamente il 44% e il 37% dei chip mondiali.
Questo spostamento del baricentro microelettronico verso l’est asiatico è dovuto all’adozione di politiche industriali mirate ad accumulare conoscenze tecnologiche e a realizzare enormi installazioni di capitale fisico. La gran parte dei costi nella produzione dei semiconduttori è infatti rappresentata dalle spese in ricerca e per investimenti fissi (circa il 50% dei ricavi).
Dopo la crisi pandemica, l’aumento congiunturale della domanda di dispositivi elettronici, insieme alla strozzatura delle catene di fornitura, hanno generato una scarsità di componenti e un conseguente aumento dei loro prezzi. Per queste ragioni, alcuni governi hanno impostato delle vere e proprie corse agli investimenti per la rigenerazione di filiere interamente nazionali, tanto da far parlare gli analisti di “nazionalismo dei chip”.
Tramite lo US Chips Act, il governo federale ha stanziato 52 miliardi di dollari per la ricerca e la produzione di semiconduttori da qui al 2026. Con la definizione dell’ultimo piano quinquennale, alla fine del periodo 2015-2025, la Cina avrà destinato al settore circa 150 miliardi di dollari. La Corea del Sud investirà da sola 60 miliardi di dollari nei prossimi tre anni. Il Giappone ha impostato degli interventi su ricerca e installazione di impianti per circa 8 miliardi.
Lo scorso febbraio anche l’Europa ha segnalato di voler giocare la partita dell’autonomia strategica nei semiconduttori. Con lo EU Chips Act, la Commissione Ue e gli stati membri impegneranno circa 11 miliardi di euro di risorse pubbliche per cercare di raggiungere il 20% della capacità produttiva mondiale entro il 2030. Non a caso, il mese successivo l’americana Intel ha annunciato investimenti in Europa per 33 miliardi, situati prevalentemente in Germania e in Francia. Mentre per l’Italia si sta ancora negoziando l’ipotesi di uno stabilimento “back-end” (assemblaggio e testing), ovvero l’attività nel processo di produzione dei chip a più basso valore aggiunto.
Sebbene accolta come un’ottima notizia, la decisione di Intel segnala una chiara debolezza nell’approccio europeo. Esso è infatti prevalentemente indirizzato a garantire la disponibilità di chip per le industrie utilizzatrici, senza puntare discrezionalmente sullo sviluppo tecnologico-manifatturiero dei produttori di semiconduttori domestici, a differenza dei ben più “autarchici” programmi di Usa, Cina e Sud Corea. Le tre grandi imprese europee del settore – STMicroelectronics, Infineon e NPX – sono “integrated device manufacturer” (IDM) come Intel e Samsung, ma rispetto a queste ultime non riescono a competere per quanto riguarda il design progettuale e la disponibilità di moderne fonderie necessarie alla produzione delle future generazioni di chip (l’Europa è ferma ai nodi da 22 nanometri dal 2012).
Il piano europeo potrebbe paradossalmente comportare il rischio di una maggiore penetrazione nel mercato interno da parte dei produttori extra-europei più competitivi. Invece di spingere sulle sinergie con i punti di forza esistenti nella ricerca e nelle apparecchiature, di favorire il trasferimento tecnologico verso i “campioni europei” e di accrescerne le dimensioni d’investimento, si finirebbe così per barattare una forse maggiore disponibilità materiale di semiconduttori con la sicura dipendenza tecnologica e gestionale da imprese localizzate in Stati Uniti e in Asia.
Nel mondo che si de-globalizza a fronte dell’ennesima crisi mondiale, l’autonomia strategica nei semiconduttori e in altre cruciali filiere o è integrale o non sarà mai tale.