Il Messaggero, 3 aprile 2022
Diego Abatantuono immagina il suo funerale
«Ho scritto il libro facendo finta di morire, ma nella vita continuerei ancora un po’». Diego Abatantuono compirà 67 anni il 20 maggio. Oltre 50 anni di carriera, un’ottantina di film, un bel po’ di tv, moltissimo cabaret e qualche libro. Si potrebbe andare tutti al mio funerale è l’ultimo, appena uscito per Einaudi, coautore Giorgio Terruzzi: Diego immagina di risvegliarsi in una strana condizione dove parla con i morti, e i vivi parlano di lui. Ripercorre così la sua vita, nel lavoro, nell’amore, nell’amicizia. A partire dal Derby, cabaret milanese dove entra da ragazzo addetto alle luci, incontra Jannacci, Cochi e Renato, Dario Fo, i Gatti di Vicolo Miracoli. E infine sale sul palco.
Nostalgia?
«Mi sono divertito moltissimo, pochi sono stati fortunati come me. Il Derby è stato il mio illuminismo, in mezzo a gente illuminata».
Però, c’era anche Francis Turatello, girava la droga...
«Il Derby era un ambiente evoluto, scrittori, artisti... A parte (credo) mia mamma che lavorava lì come guardarobiera e la madre di Turatello, tutti pippavamo. Avevo 16 anni, ho fatto esperienze, ma sono ancora vivo. Mentre nel quartiere dove abitavo, il Giambellino, uno su tre è morto di eroina, compreso mio cugino».
Lei quindi niente eroina, ma...
«Qualche canna. Se un amico me la propone a fine giornata e non ho sonno, può capitare anche oggi. Ma non voglio rischiare, già mi dicono che dovrei bere mezzo bicchiere di vino a pasto. È bere quello? Piuttosto, mi faccio mezza Coca Cola Zero».
Un tempo, lei chiedeva agli amici: «Come si sviluppa la serata?». E adesso, come sono le sue serate?
«So già come vanno a finire: che cosa c’è in tv? Anche per via della randellata di questi due anni di virus, che ho passato in campagna. All’inizio c’erano anche i miei figli, ma per loro non era proprio una grande libidine star chiusi con i genitori. Fosse successo a me, avrei strangolato mamma».
Aumenta l’età, il divertimento cala.
«Io però me la sono sempre goduta. E facendo due film all’anno ho potuto stare con i miei figli, giocare a calcio... Pensi se non avessi visto le coppe del Milan: quanti rimpianti avrei! Certo, adesso mi manca il pallone, l’avventurosità, le seratone con gli amici».
Quanto contano gli amici?
«Ho comprato case grandi per stare tutti assieme, soprattutto da vecchi. Invece oggi loro hanno problemi, impedimenti, lavoro. Ma dopo saremo comunque vicini».
Dopo quando?
«Io immagino di essere cremato e messo con chi vuole starmi vicino, sotto un ulivo, una quercia, un leccio. Sarà il bosco degli amici, con le targhette dei loro nomi: ognuno sceglie il suo albero, a chi non c’è più lo scelgo io».
Tutti insieme appassionatamente?
«L’idea di essere in catalessi mentre gli altri fuori si divertono mi fa incazzare, voglio vedere che cosa succede. Da qui l’inizio del libro: mi sveglio e c’è una festa per me, persone che avrei voluto conoscere come Marlon Brando, la mamma, gli amici. Potrei essere morto, oppure è un sogno».
Sogna molto?
«Sì, ma non andrei mai a dormire. Quando devo farlo mi siedo sul letto, controllo la luce, la pastiglia, scelgo il canale perché la notte devo avere sempre la tv accesa... e mi addormento seduto».
Perché non nel letto?
«Non riesco a mettermi con la testa sul cuscino. Non capisco chi dorme al buio e in silenzio: per me è una bara».
Torniamo alla sua storia. Dopo il cabaret, arriva il cinema.
«Ho cominciato con piccole partecipazioni, poi è arrivato Eccezzziunale... veramente ed è partita l’operazione sbagliata: 12 film, arricchendo il produttore e guadagnando un decimo di quello che avrei dovuto. Ma dopo due anni il personaggio è finito, e mi sono fermato. In seguito, mi ha chiamato Pupi Avati per Regalo di Natale, che Lino Banfi aveva rifiutato».
Milanese, con i primi film è arrivato a Roma: ha un ricordo particolare?
«Erano tutti molto socievoli, io affittai un teatrino in piazza Navona: avevo messo via tre milioni e mezzo e ho preso per una settimana questa sala, 500 mila lire al giorno. Ho invitato tutti quelli che conoscevo, i Vanzina, la Vitti, Villaggio, Benigni, Arbore con cui avevo fatto Il pap’occhio. La prima sera è andata benissimo, dal giorno dopo non è venuto più nessuno: non mi conoscevano».
Quando la rivedremo al cinema?
«Ho pronto Il mammone con Angela Finocchiaro e Andrea Pisani, remake del francese Tanguy. In giugno girerò con Patierno, ci saranno anche Frassica e il mago Forest, tutti simpatici».
Nel lavoro è importante la simpatia?
«Metà vita sono stato sul set, se mi fossi annoiato o avessi fatto come quelli che solo sangue & sudore avrei passato il tempo a soffrire».
Jannacci, che ha ispirato il titolo del libro, era medico: è mai stato curato da lui?
«Avevo un febbrone, arrivò Enzo in Vespa, scrisse la ricetta e mandò il mio amico Ugo Conti a comprare le medicine e dei Campari Soda. Mi fece un’iniezione: ero girato, ma leggenda vuole che nella siringa abbia messo anche un po’ di Campari. Di fatto, la febbre passò e andai in scena».
Alla fine, perché scrive?
«Voglio raccontare, per non dimenticare. Pur di raccontare, potrei anche fare teatro, che mi piace. Il problema è che potrei solo il lunedì e il venerdì, perché non ci sono le partite».